È una domenica di gennaio, io e mia moglie siamo appena tornati a casa, ad Amsterdam, dal solito viaggio di fine anno in Italia. È sera, sono quasi le dieci. Suonano alla porta. Rispondo all’interfono. È la polizia. «It’s the police», le dico. Mi guarda preoccupata.

Apro, e un agente di mezza età sale, si presenta, si scusa per l’ora e poi mi dice che gli è stato riferito che ho pubblicato un disegno su un magazine francese, la settimana prima. Faccio cenno di sì con la testa: «Charlie Hebdo». Non mi pare che il nome gli dica granché. Prende due appunti, fa una foto al magazine, che nel frattempo gli ho mostrato — me lo ero procurato tramite amici — e mi passa un biglietto da visita della polizia olandese.

«Il governo iraniano ha braccia molto lunghe», mi dice serio. Si aspetta che li contatti a quel numero diretto, scritto sul biglietto da visita, se noto qualcosa di strano. Si augura, mi augura, che non ce ne sia bisogno, e se ne va. Il mio cartoon — in Olanda usano questo termine anglofono, per chiamare le vignette satiriche — era stato pubblicato su Charlie Hebdo in un numero speciale, dedicato ai mullah iraniani, dopo la morte di Mahsa Amini e le proteste che le sono seguite. Quaranta lavori da vignettisti di tutto il mondo, oltre a quelli dello staff del magazine satirico francese.

Dopo la pubblicazione, le autorità iraniane, religiose e governative, hanno minacciato il magazine e, di riflesso, tutti i vignettisti pubblicati.

Senza protezioni

Questa era solo una breve storia poco importante. Un piccolo spavento e nulla di più. A quattordici mesi da quella visita domenicale, a me non è successo ancora nulla. Ma di vignettisti a cui tocca una sorte diversa, ben peggiore, ce ne sono a dozzine. E li si deve contare uno per uno, caso per caso, perché non ci sono report che diano dei numeri precisi.

Le organizzazioni Cartooning for Peace, Cartoon Movement e Cartoonists Rights hanno dichiarato: «Il 2020 potrebbe vedere la comunità globale dei fumettisti danneggiata irrevocabilmente. In parte le circostanze sono inevitabili; la depressione economica porterà alla perdita di molti di loro, e abbiamo visto che il logoramento è già in atto. Ma ancora peggio, un’azione repressiva deliberata li ridurrà ulteriormente al silenzio». Le cose non sono certo migliorate negli ultimi quattro anni.

Se vogliamo fare qualche esempio, prendiamo Gábor Pápai, in Ungheria. Nel maggio 2020, dopo un cartoon additato come blasfemo, a Gábor e al giornale per cui lavora, Népszava, è stata inflitta una multa, con l’obbligo di pubblicare una scusa, firmata da Gábor, nello stesso riquadro dove il cartoonist pubblica i suoi lavori.

Oppure, fuori dall’Ue, in Giordania, Emad Hajjaj, che sempre nel 2020 è stato arrestato senza nemmeno sapere il perché, e poi ha scoperto che il motivo era un semplice tweet con un suo cartoon, che a quanto pare poteva danneggiare i rapporti diplomatici della Giordania con gli Emirati Arabi Uniti. O ancora, in Turchia, Zehra Ömeroğlu, accusata di oscenità per un suo disegno, la quale rischia più di sei anni di galera se venisse giudicata colpevole.

E queste sono solo le cause legali, intentate contro cartoonist per indurli a smettere di disegnare, o contro le testate che li pubblicano per fare in modo che li scarichino. Per fare in modo che la satira politica diventi un peso.

Poi ci sono le violenze. Il trolling online, le minacce di morte, gli arresti illegali, le sparizioni, i sequestri, le botte, le torture. Gli omicidi.

È il caso di Pedro Molina, che nel 2018 si è ritrovato uno sconosciuto che provava a scrivergli «plomo» sulla porta di casa. Plomo vuol dire «piombo» in spagnolo, e vuol dire «morte» in Nicaragua, perché hai fatto arrabbiare qualcuno di potente e di criminale. Pedro è scappato negli Usa, il giorno di Natale, perché all’aeroporto il 25 dicembre ci sono meno controlli.

Peggio ancora è andata a Ali Farzat, siriano, al quale il presidente Bashar al-Assad ha fatto rompere le mani nel 2011, perché smettesse di disegnare la sua satira sovversiva. Il suo collega e conterraneo Akram Raslan, invece, alle torture non è sopravvissuto. È morto in prigione, nella primavera del 2013.

Queste sono solo alcune delle tante storie di cartoonist non protetti, né dai giornali per cui lavorano, né dalle autorità, né dall’opinione pubblica.

Tanto successo, tanta precarietà

Ma perché non ci curiamo dei vignettisti? Bisogna fare qualche passo indietro e osservare il quadro d’insieme. Il fatto è che la satira politica è come un moribondo che non è mai stato meglio. Un vero ossimoro.

Da un lato, il numero dei vignettisti impiegati da testate giornalistiche continua a scendere; solo negli Usa, uno dei luoghi dove la satira politica “da giornale” è nata, si è passati da circa 150 cartoonist nel 1997 a circa 20, nel 2023.

Ma allo stesso tempo i social media danno moltissima visibilità ai cartoon, che diventano virali, passando di occhio in occhio, di click in click, e facendo il giro del mondo. Succede perché le vignette satiriche sono un mezzo di comunicazione potentissimo. Ci fanno sorridere, ridere, arrabbiare, e soprattutto ci fanno riflettere.

Il problema è che, se per attirare la rabbia dei satireggiati basta avere talento e andare forte sui social, decidere chi è un cartoonist e chi non lo è diventa problematico – anche se a mio modo di vedere, «cartoonist è, chi il cartoonist fa».

E così diventa anche complicato definire i vignettisti come giornalisti.

Di certo, però, c’è che chi fa questa professione incontra gli stessi rischi di chi fa il giornalista. E i giornalisti se la passano piuttosto male.

Secondo il Committee to Protect Journalists, nel 2023 ne sono stati uccisi 78, e quasi 800 erano quelli detenuti, secondo Reporters Sans Frontières. Quest’anno poi, solo a Gaza, hanno già perso la vita 95 giornalisti, sempre stando ai numeri del CPJ.

Come abbiamo detto, di dati precisi sui cartoonist non ce ne sono, ma basta guardare tutti i casi che Cartooning for Peace o Cartoonist Right trattano per capire che le emergenze sono moltissime.

Quando partecipo a qualche evento legato al mondo del giornalismo — e mi capita spesso, visto che lavoro per lo European Press Prize — sono sempre lì in terza o quarta fila ad alzare la mano per fare la stessa domanda ai relatori: «Avete parlato della sicurezza dei giornalisti. Ma dei cartoonist invece?». E quando poi parlo con i relatori privatamente, mi accorgo che la categoria dei vignettisti perde pezzi: di cartoon se ne vedono a bizzeffe online, ma dei cartoonist si parla sempre poco, e quelli che lavorano in redazione, con un contratto normale, al pensionamento vengono sostituiti da freelancer. I freelancer sono più facili da scaricare, nel caso qualche disegno scateni polemiche — cosa che certamente può succedere.

Però così la professione si indebolisce. E se poi capita che a qualche cartoonist provino a scrivere «plomo» sulla porta di casa, oppure la arrestino senza spiegazioni, oppure gli rompano le mani: chi li difenderà, se non hanno un giornale dietro le spalle e se non hanno dati ufficiali a raccontare i pericoli che corrono?

Non m’illudo che basti un editoriale a convincerci, ma se dovessi decidere da dove partire direi: la prossima volta che vediamo un cartoon sui social media, oppure che leggiamo di qualche vignetta satirica che ha fatto arrabbiare qualcuno di potente, pensiamo a chi la ha disegnata.

Dietro a un cartoon c’è sempre qualche vignettista, seduta nella sua stanzetta, pagato forse, sicuramente spesso sola, ancora più spesso precario. Che siano giornalisti oppure no, i cartoonist meritano di essere protetti quando fanno il loro lavoro e qualcuno cerca di mettergli i bastoni tra le matite. Io, nel frattempo, continuo ad alzare la mano agli eventi sul giornalismo.

Emanuele Del Rosso è vignettista politico. È capo comunicazione allo European Press Prize, dirige lo European Cartoon Award, ed è coach al Radio Netherlands Training Center

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