Judith Kirton-Darling è la segretaria generale di industriAll Europe, la confederazione europea di sindacati che rappresenta anche i lavoratori metalmeccanici. In questa fase critica per il comparto auto – da Volkswagen a Stellantis – coordina le lotte dei lavoratori del settore. Che chiedono una risposta comune alla crisi.

Il capo negoziatore della IG Metall, che rappresenta i lavoratori metalmeccanici tedeschi, ha appena annunciato che un primo accordo con Volkswagen è stato raggiunto, ma «prevede contributi dolorosi da parte dei dipendenti». Questa crisi sarà pagata dai più deboli?

Sicuramente è un passo importante che IG Metall sia riuscita a mettere in cassaforte l’accordo Volkswagen sulla sicurezza del lavoro fino al 2030. Mentre iniziano ad arrivarmi i dettagli dell’accordo, posso dire che soluzioni negoziali e che coinvolgano i lavoratori sono l’unica strada per affrontare la crisi del settore. Abbiamo scritto a von der Leyen insistendo sulla necessità di un piano industriale europeo che veda i lavoratori seduti al tavolo, non inseriti nel menu; da questo bisognerebbe partire, nel dialogo strategico da lei annunciato per gennaio.

L’estrema destra europea – compresa quella meloniana – usa la crisi del settore auto come argomento per attaccare le politiche climatiche, come se fosse tutta colpa del piano verde europeo. Ma è davvero così?

Certo che no. La crisi del settore automotive è dovuta a una serie di fattori combinati oggi in una tempesta perfetta. Chi dà tutte le colpe al green deal europeo fa opportunismo politico, populismo; ma non affronta le questioni fondamentali. Il punto problematico non sta negli obiettivi climatici in sé, ma nell’assenza di una strategia industriale su come raggiungerli. E poi c’è il secondo punto chiave: nel settore automobilistico le compagnie portano avanti una strategia estrema di massimizzazione dei profitti, che si traduce in una enorme pressione sulla forza lavoro e su tutta la catena, e che comporta anche delocalizzazioni. Una strategia simile porta enormi dividendi oltre che altissimi stipendi per gli amministratori delegati, ma svia dagli investimenti necessari per la trasformazione.

Le aziende hanno preferito enormi profitti immediati invece che investimenti lungimiranti?

Proprio così. Sono arrivate a raddoppiare la produzione europea legata a motori a combustione interna in un momento in cui era chiaro che l’elettrificazione era in arrivo; ma siccome gestire questa transizione tramite investimenti avrebbe ridotto i margini di profitto, hanno privilegiato questi ultimi.

La politica non ha usato leve, considerando anche i finanziamenti pubblici a questo settore? Stellantis (fu Fiat) ne ha avuti...

La politica non ha usato leve: i sindacati italiani lamentano proprio la prolungata assenza di strategia industriale nell’automotive. Abbiamo un problema, in Italia e più in generale in Europa: mancano condizionalità sociali (ovvero obblighi per le imprese) perché possano accedere agli investimenti. Stellantis e Tavares non hanno mai nascosto – anzi hanno esibito orgoglio – di essere una compagnia che spreme profitti il più possibile. Ma nel lungo termine questa strategia non è sostenibile, anzi è come una droga: per mantenere le aspettative degli azionisti spremi sempre più, a detrimento della resilienza dell’industria. Il bello è che ora si dice ai lavoratori che dovranno pagare loro il prezzo della mancanza di politiche industriali e dell’avidità delle corporation. Nel caso di Volkswagen ha giocato anche un terzo elemento chiave: il sorpasso globale. Volkswagen è rimasta fregata dal mercato cinese. Il bello è che ora si dice ai lavoratori che dovranno pagare loro il prezzo della mancanza di politiche industriali e dell’avidità delle corporation.

Tra estrema destra arrembante (Meloni) e governi in tilt (Scholz), il fatto che in questa fase l’Europa appaia politicamente fragile condiziona il quadro e i negoziati?

Sì: il contesto politico rende questa crisi ancor più sfidante. Abbiamo una serie di governi non inclini a cercare soluzioni europee, ma nessuno – né l’Italia né la Francia né la Germania – può gestire questa crisi da solo. Ci serve un piano comune, anche perché il settore auto è estremamente integrato nel mercato interno, oltre al fatto che Cina e Usa pongono sfide in termini di politiche industriali e misure commerciali. Noi sindacati abbiamo chiesto da tempo un piano comune, invece l’attitudine a cercare soluzioni nazionali complica la situazione.

Lei accennava a un effetto domino. Ad esempio la crisi Volkswagen ha un impatto sull’indotto in Italia. È in grado di calcolarlo?

In particolare le regioni del Nord Italia sono molto integrate nell’industria automobilistica tedesca. Su due piedi non sono in grado di quantificare, ma posso far riferimento a uno studio prodotto qualche anno fa dalla European Association of Automotive Suppliers (Clepa). Il rapporto indicava che la trasformazione nel settore auto minacciasse 74mila posti di lavoro in Italia; parte di quella cifra sarà riferita all’industria domestica e a Stellantis, ma una fetta consistente è legata ai cambiamenti in Germania.

Il nuovo mandato di von der Leyen – che ha annunciato per gennaio un “dialogo strategico” sul settore auto – è partito sotto due bandiere: la “competitività” e il “clean industrial act”. Le paiono risposte all’altezza della crisi?

Avevamo chiesto un piano industriale che integrasse il green deal e in teoria il “clean industrial act” nasce con questo scopo, dunque è benvenuto. Il ritornello della competitività invece è in sé un ritorno al passato, dato che già la strategia di Lisbona del 2000 parlava di competitività, di aumento della produttività… La ricetta è sempre la stessa e non affronta le questioni fondamentali dell’economia europea. Una riguarda gli investimenti: una delle debolezze fondamentali è che avvengono senza chiedere condizionalità, senza pretendere che restino in Europa. L’altra riguarda la domanda: basta leggere i rapporti della Banca europea degli investimenti per trovare che la domanda interna è un elemento chiave. Va supportata, e invece abbiamo ancora mezza Europa con salari reali che sono al di sotto degli anni passati, mentre le aziende massimizzano i profitti.

Investire nei lavoratori innescherebbe un circolo virtuoso?

Assolutamente: investire nella forza lavoro, in infrastrutture e trasformazione industriale è quel che dovremmo fare. Invece parte della retorica attuale sulla competitività resta legata alle politiche dell’austerità. Ma le pare congruente che von der Leyen annunci la sua come una “Commissione degli investimenti” mentre al contempo molti paesi sono sottoposti a disciplina per i vincoli fiscali? A parole, il rapporto Draghi considera che si debba investire nella forza lavoro; ma poi continua a non riconoscere il valore del nostro welfare state (lo stato sociale) nel creare la coesione sociale che dice essere il fondamento della produttività futura.

Inizialmente von der Leyen non aveva neppure previsto lavoro e diritti sociali nel portafogli della commissaria Mînzatu. In tutto questo il governo Meloni – come hanno fatto anche altri da Orbán a Sunak – mina il diritto di scioero. Cosa pensa della tendenza a prendere di mira sindacati e scioperi?

Il diritto di sciopero è sempre tra le prime vittime delle tendenze autocratiche e della destra in generale: siamo la sentinella delle derive in corso. Il colmo è che tutto ciò è pure controproducente: ci sono massicce evidenze, raccolte non solo dai sindacati ma dai bastioni del neoliberalismo come il Fondo monetario internazionale o la Banca mondiale, che mostrano come relazioni industriali forti e stabili siano fondamentali per il successo economico delle aziende e dei paesi. L’attacco allo sciopero è di fatto un attacco alla negoziazione collettiva, e oltre a essere sbagliato è controproducente per la tanto osannata “competitività”.

Tra Stellantis e Volkswagen, condividere strategie sindacali a livello europeo conta?

Quando il sole splende no, ma quando piove – come oggi sul settore auto – vedi quanto sia importante che gli amici arrivino con gli ombrelli. A febbraio i sindacati italiani saranno con noi a Bruxelles a protestare.

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