Da una parte, i video girati con lo smartphone dal presidente ucraino Zelensky, le incursioni di Anonymous nella tv russa o gli strumenti digitali che consentono di inviare messaggi di testo ai cittadini russi e raccontare cosa si nasconda dietro quella che Putin ha battezzato “operazione speciale”.

Dall’altra, l’ormai nota propaganda del Cremlino a base di eserciti di troll che diffondono disinformazione, finti profili social di giornalisti ucraini che sostengono le ragioni russe e network finanziati da Mosca (come Russia Today e Sputnik) per inquinare l’informazione anche in Occidente.

Ma se gli ucraini hanno ottenuto innegabili successi comunicativi, la famigerata macchina della disinformazione russa non sembra invece aver fatto breccia in Occidente. «Si è parlato tanto delle straordinarie capacità russe nel settore della disinformazione», ha spiegato all’Atlantic Eliot Higgins, fondatore della piattaforma di giornalismo investigativo Bellingcat.

«Oggi stiamo capendo che non erano loro a essere così bravi, eravamo noi a essere impreparati. Abbiamo confuso la nostra incompetenza per abilità russa. Anche i tentativi del Cremlino di ritrarre l’Ucraina come una nazione di neonazi sono trascurati e utilizzano materiale ormai vecchio».

Non solo la Russia ha riciclato una parte del repertorio che tanto successo ha avuto in passato (a partire dalle elezioni statunitensi del 2016), ma si è trovata ad affrontare un’audience online meno ingenua di quanto non fosse in passato e – soprattutto – delle piattaforme social per niente disposte a ripetere i tentennamenti e gli errori del passato.

E così, pochi giorni dopo l’invasione dell’Ucraina, Facebook, Twitter e YouTube non hanno soltanto smantellato le reti di account create allo scopo di diffondere disinformazione, ma hanno anche agito con un’aggressività prima sconosciuta nei confronti di network mediatici finanziati dal Cremlino come Russia Today e Sputnik (le cui pagine sono state cancellate).

Cosa resta della propaganda

Attenzione però a dare già per sconfitta la macchina della propaganda di Putin, soprattutto sul fondamentale fronte interno. Dopo aver proibito l’accesso a Facebook, Instagram e Twitter, aver convinto TikTok a bloccare qualunque video di origine esterna, aver varato una severissima legge contro le fake news (dove cos’è falso, ovviamente, lo decide il governo) e aver messo il bavaglio alle ultime testate giornalistiche indipendenti, la Russia è riuscita a condizionare l’opinione pubblica in una maniera tanto efficace quanto, per noi, surreale.

Negli ultimi giorni si sono infatti moltiplicate le testimonianze – raccolte dalla testata Meduza (pubblicata in russo e in inglese dalla Lettonia) – di civili ucraini relative allo scetticismo – quando non il totale rifiuto – con cui i loro parenti in Russia hanno accolto i resoconti su ciò che sta avvenendo a Kiev, Mariupol, Kharkiv e altrove.

La 25enne Oleksandra ha per esempio spiegato come la madre, che vive a Mosca, non creda ai suoi stessi racconti dei bombardamenti su Kharkiv: «I miei genitori capiscono che qui sono in corso delle azioni militari, ma mi dicono che i russi sono venuti a liberarci, che non rovineranno nulla, non ci faranno del male e prenderanno di mira solo le basi militari».

Non è un caso isolato: «Ho raccontato a mio padre che stavo cercando un posto sicuro dove nascondermi con mia moglie e nostro figlio per evitare di essere colpiti da una bomba», ha raccontato per esempio Mikhail Katsurin, ristoratore di Kiev il cui padre vive in Russia vicino a Nizhny Novgorod.

«Con voce molto calma, mi ha risposto che nulla di tutto ciò era vero e che la Russia stava soltanto rimuovendo i nazisti per salvare la popolazione russofona dell’Ucraina dall’oppressione».

Una guerra scaccia l’altra

Alcuni successi comunicativi del Cremlino sono avvenuti però anche in Occidente. Potrebbe per esempio esservi capitato di vedere sui social network una mappa geografica in cui viene mostrato come «nelle ultime 48 ore» ci siano stati bombardamenti non solo in Ucraina, ma anche in Siria, Yemen e Somalia. Sotto la mappa campeggia la scritta “Condanna la guerra ovunque”.

Diffuso sui social subito dopo l’invasione, questo post ha ottenuto in pochissimi giorni oltre 500mila like su Instagram. Basta invece una ricerca con le parole chiave corrette (“Condemn war everywhere”) per farsi un’idea di quanto sia circolato su Facebook, soprattutto negli ambienti della sinistra.

A creare la mappa è stata l’organizzazione “di sinistra” con sede a Berlino nota come Redfish, che – come ha scoperto il Daily Beast già nel 2018 – è finanziata direttamente dal Cremlino. Su Facebook, Twitter e gli altri (dove prima della recente sospensione contava complessivamente 1,4 milioni di follower), Redfish pubblica materiale a prima vista inappuntabile. Oltre alla mappa, ha per esempio recentemente rilanciato il video di un giornalista occidentale che fa un commento su come l’invasione della “civilizzata” Ucraina sia “una tragedia superiore” rispetto a quella di nazioni come Afghanistan o Iraq,

«Non ci sono dubbi che il commento di quel giornalista sia sbagliato», ha scritto Vice News nella sua inchiesta su Redfish. «L’obiettivo di quel video, visto da 400mila persone solo su Twitter, era però lo stesso della mappa dei bombardamenti: distogliere le critiche dal Cremlino».

Rispetto ad altre operazioni di propaganda, le azioni di Redfish sono più sottili, perché schiacciano i tasti giusti, sostengono tesi condivisibili ed evitano di supportare direttamente la Russia. La strategia è infatti quella che in inglese viene definita “whataboutism”: un tic comunicativo che anche in Italia conosciamo bene e che porta a replicare alle critiche nei confronti di Putin con un «e allora la Nato?», nel tentativo di deviare l’attenzione e mettere tutti sullo stesso piano.

Fact checking di propaganda

Altre operazioni sono ancora più subdole. Alcuni fact-checker russi hanno per esempio smontato la genuinità di un video che mostrava un presunto bombardamento su Kharkiv, risalente in realtà al 2017 e non c’entrava nulla con l’attuale conflitto.

Il video era senz’altro falso, peccato che – come dimostrato da un’inchiesta di ProPublica – nessun sostenitore dell’Ucraina l’avesse diffuso sui social. In poche parole, i fact-checker russi hanno creato dal nulla un caso inesistente, allo scopo di inquinare le acque e far passare l’idea che tutti mentano, che tutti facciano propaganda e disinformazione nella stessa maniera.

Alcune operazioni propagandistiche russe stanno quindi avendo qualche successo anche all’estero, perfino in un momento in cui l’attenzione è massima. Cosa succederà tra qualche settimana? «La guerra non finirà in pochi giorni, ma il ciclo delle notizie non può mantenere questo livello di attenzione», ha spiegato allo Scientific American Laura Edelson ricercatrice esperta in disinformazione della New York University.

«Fa impressione dirlo, ma tra tre settimane non ci penseremo più così costantemente. Ed è in quel momento che le persone abbasseranno la guardia e saranno molto più vulnerabili verso queste forme di disinformazione».

Fake news ucraine 

Ci sono altri due elementi che, sul lungo termine, rischiano di favorire la Russia. Il primo è che anche l’Ucraina cada nella trappola della propaganda.

Alcune fake news sono infatti state rilanciate – difficile dire se in buona fede o meno – anche dalle massime istituzioni: dal presidente Zelensky che annuncia la morte dei soldati che su un piccolo avamposto avevano rifiutato di arrendersi alla nave da guerra da russa (e che invece pare siano vivi), al profilo Twitter del ministero della Difesa che diffonde video di combattimenti aerei tratti però da un videogioco, fino alla leggenda del Fantasma di Kiev – il pilota ucraino che avrebbe abbattuto sei aeroplani russi – diffusa anche dall’ex presidente Poroshenko.

Il secondo pericolo è che anche in Occidente si scivoli in alcuni eccessi. Potrebbe per esempio essere il caso di Facebook, che ha annunciato alcune eccezioni alle sue regole sui discorsi d’odio.

In Ucraina, Polonia, Ungheria e altre nazioni di frontiera – ha comunicato il social network – «saranno permesse forme di espressione politica che normalmente violerebbero le nostre regole, tra cui affermazioni violente come ‘morte agli invasori russi».

Allo stesso tempo, saranno consentite minacce di morte a Putin e al presidente bielorusso Lukashenko purché “non credibili”. La situazione odierna è sicuramente eccezionale.

Considerato però come Facebook – in Myanmar, India, Sri Lanka e altri – sia in passato già stato utilizzato per diffondere l’odio etnico, siamo sicuri che soffiare sul fuoco sia la scelta migliore?

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