La risposta europea a Covid-19 ha rivelato una verità scomoda. Nonostante l’Unione europea si sia occupata in modo crescente di salute pubblica in ogni sua politica – che si tratti di quella agricola, della sicurezza, della protezione dei consumatori –, essa non può intervenire direttamente per salvare le vite delle persone, neppure in una situazione di emergenza. Solamente gli stati membri sono titolati a farlo.

La fallibilità degli stati

Eppure, quando questi stessi stati hanno adottato misure unilaterali nella speranza di contenere la diffusione dei contagi, quelle misure si sono dimostrate non solo inefficaci ma pure controproducenti, perché hanno colpito le catene di rifornimento di beni essenziali e la mobilità di milioni di cittadini: hanno bloccato la circolazione di merci vitali e di persone nell’Ue. Nel tentativo di fronteggiare minacce che non conoscono frontiere, gli stati, agendo in modo frammentato invece che comune, si sono mostrati più vulnerabili. Alla fine l’unico modo che l’Unione ha per proteggere la salute pubblica dei propri cittadini è far valere le proprie competenze in ambiti che non sono strettamente sanitari, raccattando prerogative altre sparse qua e là nei trattati. Questo è quello che l’Ue ha fatto per decenni, regolamentando l’immissione nel mercato dei farmaci – e adesso, dei vaccini –, degli alimenti, dei prodotti biotecnologici, persino di sangue e organi umani, tabacco, alcol, e pure quando si è trattato di riconoscere qualifiche mediche e il diritto dei pazienti di essere curati in tutta l’Unione. Ce n’è, di materia, per una politica di salute pubblica europea: ma per ora è un ventaglio di regole sparse che si sono formate negli anni perché bisognava pur dare all’Ue qualche strumento per garantire il funzionamento del mercato interno, per beni, servizi, lavoratori.

Pandemia e svolta politica

Di punto in bianco la pandemia ha svelato quanto imperfetto fosse questo stato di cose: ora è evidente a tante persone. Adesso, secondo l’Eurobarometro, più di due terzi dei cittadini europei si aspettano dall’Ue che assuma un ruolo più attivo nella protezione della loro salute, soprattutto se si tratta di salvaguardarli da minacce sanitarie che valicano i confini nazionali. Alla luce di tutto ciò, le competenze dell’Unione in ambito di salute pubblica, così limitate, così imperfette, hanno spinto la politica, quasi da subito, a porre la questione di quanto sia impellente creare una Unione europea della salute. Questo appello, che si è levato inizialmente durante la prima fase della pandemia, è stato fatto proprio dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. Il punto è che però la presidente non ha proposto una cornice generale, ma si è limitata a invocare un approccio più serio da parte degli stati membri, e a non escludere l’eventualità di delegare più competenze al livello decisionale europeo. Alla luce di ciò, si può dire che l’invocazione di una Unione della salute da parte di von der Leyen sollevi più interrogativi di quanti ne risolve. Domande scomode, peraltro.

Un più stretto coordinamento a livello europeo implica necessariamente una Unione della salute? Che sforzo servirebbe per metterla in piedi? Che conformazione assumerebbe? Sarebbe a prova di prossima pandemia? A quale costo umano ci si attrezzerebbe per la futura emergenza? Quante vite sarebbero state risparmiate da una Unione della salute?

Una bozza di Health Union

Le prime proposte in direzione della creazione di una EU Health Union, una Unione della salute, sembrano un tentativo di intervenire, modificandoli, su meccanismi e cornici istituzionali già esistenti, nell’intento di depurarli dai più marchiani difetti e limiti, quelli messi in luce dall’esperienza di Covid-19. A guardar bene, però, questi meccanismi di coordinamento e di solidarietà europei – che spaziano dalla protezione civile europea alla cornice di sicurezza sanitaria comune, dal comitato per la sicurezza sanitaria (Css) al centro di coordinamento della risposta alle emergenze (Ercc) – hanno già in sé la capacità di dare risposte ai problemi, solo che non sono stati utilizzati pienamente (vale per la protezione civile) oppure sono stati usati in modo inadeguato (è il caso della cornice di sicurezza sanitaria comune). In altre parole, nella prima fase della pandemia l’Unione europea avrebbe potuto evitare di affidarsi a quel ventaglio di misure nazionali scoordinate, di assistere ai blocchi delle esportazioni di dispositivi sanitari, a quei messaggi contraddittori sulla necessità di indossare mascherine, o al risorgere dei controlli alla frontiera quando non necessari.

Una Unione della salute degna di questo nome, allora, merita di essere più ambiziosa, di intervenire alla radice del problema di perché l’Unione non abbia risposto subito in modo efficace alla crisi sanitaria. Alla radice, ci sono le diseguaglianze strutturali che attraversano l’Unione quanto si tratta di sistemi sanitari, come del resto si vede anche ora, da quel che sta succedendo con la somministrazione delle dosi del vaccino anti Covid. Queste diseguaglianze spaziano dall’inadeguatezza di risorse pubbliche investite nel sistema sanitario – con differenze tra uno stato e l’altro – alla disomogenea copertura della popolazione, dall’inadeguata disponibilità di servizi, soprattutto in aree rurali, alle difficoltà nel raggiungere i gruppi più vulnerabili.

Una soluzione ambiziosa

Questa divergenza di paradigmi la si potrebbe affrontare con una direttiva che introduca standard minimi di qualità in ambito sanitario in seno all’Unione europea. Ciò aprirebbe la strada all’introduzione di una serie di criteri condivisi il cui rispetto dovrebbe essere verificato da Bruxelles su base regolare, utilizzando parametri come il numero di posti letto, la disponibilità di terapie intensive, la quantità di operatori sanitari per numero di abitanti, il tasso di spesa per la sanità, l’effettivo e agevole accesso alle cure per tutti, con una particolare attenzione ai settori più fragili della popolazione.

In questo modo, mentre la gestione, l’organizzazione e il finanziamento dei sistemi sanitari rimarrebbero in capo agli stati membri, i requisiti minimi europei di qualità in ambito sanitario garantirebbero una “resilienza paneuropea”, che faccia scudo a pandemie e altre crisi di salute pubblica innalzando il livello di risposta e prestazione sanitaria nei singoli stati. Questo approccio, alzando l’asticella della sanità nell’Unione, sarebbe una risposta a tante delle debolezze mostrate da questa attuale politica sanitaria frammentata; per esempio, risolverebbe il problema che oggi ancora non è in opera una supervisione europea vincolante sui piani di crisi degli stati e la loro attuazione. Peraltro, spingendo i settori sanitari nazionali a convergere fra loro, questo sistema contribuirebbe a costruire una autentica, solida infrastruttura sanitaria paneuropea utile senz’altro anche per future emergenze sanitarie di natura trasnazionale.

Proprio questa emergenza recente, costringendo a prestare attenzione allo stato dei sistemi sanitari nazionali, ne ha mostrato anche tutte le diseguaglianze. Chiudere gli occhi su tutto questo significa essere miopi, ancor più se lo si fa mentre si dichiara che l’obiettivo dell’Unione della salute è rafforzare la resilienza europea di fronte a minacce senza frontiere.

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