Saranno «regolamenti di conti interni», come prova a scrollarli via Giorgia Meloni. Sarà che tutti gli uomini del presidente Emmanuel Macron, prima il ministro Gérald Darmanin, poi il capogruppo europeo di Renew e leader di Renaissance, Stéphane Séjourné, colpiscono Meloni perché vogliono colpire Le Pen. E sarà pure che la vicepremier spagnola Yolanda Díaz, in corsa per guidare un futuro governo in Spagna, attacca Meloni per attaccare Vox.

Poco importano le proprietà transitive, la eterogenesi delle cause. Quel che è certo è che la premier nostrana è diventata un pungiball d’Europa, e con lei l’Italia. Appena investita dell’incarico, aveva messo piede a Bruxelles per dire: «Vedete? Non sono una marziana». E nel giro di pochi mesi ha dilapidato il suo già scarno capitale politico, dilapidando pure il nostro: due dei governi che potenzialmente hanno più affinità strategiche con l’Italia, e cioè Francia e Spagna, demonizzano Meloni senza timore delle conseguenze, tanto lei ha isolato l’Italia.

Un’insostenibile leggerezza di dichiarazioni: «Meloni è incapace di regolare i problemi migratori» (Darmanin); «fa demagogia, la sua politica è ingiusta e inefficace» (Séjourné); «governa sulla pelle dei lavoratori» (Diaz). E che dire dell’Europarlamento dove ormai l’Italia è stigmatizzata alla stregua dell’Ungheria di Orbán?

Il costo politico

Quanto costerà all’Italia che Meloni diventi il pungiball europeo, lo si vede dal cimitero di occasioni perse.

La prima, gigantesca, riguarda proprio la Francia. Quando Meloni prende in mano la campanella di governo, in autunno, Macron è già su un aereo per Roma; sono i giorni delle incomprensioni con Berlino, del vertice francotedesco di Fontainebleau che salta. Una frattura che può trasformarsi per Meloni in un’occasione gigantesca, consegnatale in dote dal predecessore Draghi, che apre il canale tra lei e l’Eliseo.

Macron infatti corre ad incontrarla – certo di soppiatto, le foto in penombra per non aizzare l’opposizione in Francia – ma poi nel giro di pochi giorni è già crisi diplomatica: Chigi non sa gestire la partita delle navi e il canovaccio delle collaborazioni si deteriora. L’ultima puntata, dopo che Darmanin ha definito Meloni «incapace» sui migranti, è quella che si gioca tra Parigi e Bruxelles: Séjourné guida il partito macroniano e pure il gruppo Renew in Europarlamento. Bastona l’estrema destra, Italia compresa.

La miccia di Darmanin, invece di spegnersi, deflagra. «Tutto rivolto all’opinione pubblica francese, prove di debolezza», è la versione di Meloni. «Non mi risultano problemi con la Francia». Mentre Chigi prova a far andare avanti la macchina, nel frattempo siamo già isolati su svariati dossier.

Occasioni perse

Sugli aiuti di stato, la Francia si è presto riconciliata con la Germania, lasciando all’angolo il nostro governo. Almeno Parigi ci avrà aiutati sul debito comune? Il fantomatico fondo sovrano è presto naufragato, l’unica compensazione che – forse – avremo sarà un ritocchino sui fondi già previsti.

E la riforma del patto di stabilità? Ignorata, per ora, la richiesta di Chigi di scorporare gli investimenti dal debito.

Su questo, anche l’asse con gli spagnoli sarebbe cruciale: da luglio hanno la presidenza di turno; peccato che pure loro ci agitino come uno spauracchio. La ministra del lavoro Díaz stigmatizza le politiche anti-lavoratori di Meloni, la capogruppo socialista all’Europarlamento – sancheziana – attacca la premier italiana per sganciare il Ppe da lei.

Peccato: la sintonia con la Spagna avrebbe fatto comodo. Pure sull’energia, dove Draghi aveva avviato un’alleanza. Meloni ad aprile ha accolto Sánchez; nel giro di un mese, tensioni alle stelle. Il governo – e Giorgetti – può aspettarsi ora un gioco di squadra sul patto di stabilità? Vedremo all’ecofin e all’eurogruppo la prossima settimana, rispondono dallo staff. Ma le alleanze non si fanno in pochi giorni; eventualmente, è in pochi mesi che deflagrano.

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