Ci siamo: da oggi Bruxelles può reperire risorse sui mercati. Tutti i 27 stati membri dell’Ue hanno ratificato la “decisione sulle risorse proprie”. Mentre i fondi diventano realtà, gli eurodeputati verdi lanciano l’allerta. Hanno studiato i piani proposti dai governi, compreso quello italiano. Questi Recovery and resilience plans (piani nazionali di ristoro e resilienza) attendono il semaforo verde della Commissione e poi dei governi riuniti in Consiglio. E siccome agli eletti europei non resta ora che la moral suasion, i verdi scrivono una lettera che dice: «Cara Bruxelles, se non intervieni, questi piani così come sono ora tradiscono il clima. Perdipiù dimenticano le diseguaglianze di genere». Abbiamo letto in anteprima le 13 pagine di appunti e moniti. L’Italia viene citata molto spesso, tra gli esempi di misure inadeguate o fuorvianti. Dall’ecobonus alle caldaie a gas, passando per l’Ilva e il digitale, pare che tra i paesi che peccano e che tentano il green washing ci sia proprio il nostro.

Pecche italiane

Quali regole deve rispettare un Recovery plan? La bussola è il regolamento 2021/241 di Europarlamento e Consiglio, che risale al 12 febbraio e che “istituisce il dispositivo per la ripresa e la resilienza”. Le regole europee dicono ad esempio che «le misure incluse nei piani nazionali dovrebbero contribuire alla transizione verde, compresa la biodiversità, e costituire almeno il 37 per cento dell’assegnazione totale». I verdi hanno studiato i piani presentati dai governi e hanno ora «seri dubbi sul fatto che i piani nazionali rispettino le regole e il loro spirito». In molti casi, dicono gli eletti green d’Europa, il criterio “do no significant harm” (che significa non nuocere ad ambiente e clima) viene aggirato, così come le categorie di investimenti verdi. Insomma i principi green «sono elusi, ignorati, non considerati, con due conseguenze: il green washing e il tradimento di quell’obiettivo comune di destinare il 37 per cento di investimenti al green». Nella lista dettagliata di esempi finiscono spesso Polonia e Repubblica Ceca, ma anche Francia e Germania, e poi c’è un paese che si fa notare quasi in ogni paragrafo. Ed è l’Italia.

Dall’ecobonus a Big Tech

In evidenza tra le pecche nostrane c’è l’Ecobonus. Il regolamento Ue dice che sostituire impianti di riscaldamento a carbone con quelli a gas non aiuta in alcun modo gli obiettivi climatici; Roma invece annovera pure le caldaie a gas come un passo avanti. «Incentivi così generosi da coprire il 110 per cento dei costi, e che però non soddisfano obiettivi misurabili». C’è anche il caso Ilva: «Si parla di nuovi impianti ma ancora mancano le valutazioni di impatto su ambiente e salute richieste dalla direttiva Ue». Poi, travestiti nel nostro piano da viatici di innovazione, ci sono i trattori a diesel e l’uso di idrogeno che proviene da combustibili fossili . Sul gas si disputa oggi una lotta politica: «Il gas – dice Luca Iacoboni di Greenpeace – non è la soluzione ai problemi climatici, anzi è una parte notevolissima del problema. Lo ha confermato di recente l’Agenzia internazionale dell’energia. Eppure i governi fanno finta che non sia così». Tra le distorsioni non c’è solo il greenwashing. Sul fronte digitale, i verdi notano che «Italia, Francia, Germania non garantiscono la competitività per quel che riguarda infrastrutture cloud e altre commesse digitali». In Italia, «le amministrazioni dovranno scegliere i provider da una lista predefinita, ma non viene garantito l’ingresso in questa lista delle piccole e medie imprese». Insomma i big (tech) la fanno da padrone.

La lettera

«Il fatto che nominiamo spesso l’Italia non vuol dire che il vostro piano non abbia aspetti positivi o che sia peggio di altri», rassicura uno dei firmatari, Damian Boeselager. «E sia chiaro, noi abbiamo a cuore i Recovery plan proprio perché crediamo che questa esperienza inedita di solidarietà europea debba diventare la strada futura». Boeselager è cofondatore di Volt Europa, il movimento paneuropeo; la Germania lo ha eletto europarlamentare e da allora è il primo e unico eurodeputato eletto di Volt, confluito nei Verdi. «Proprio perché credo che l’architettura fiscale europea vada ridisegnata per rendere il Recovery ripetibile, penso che l’opportunità vada usata bene». C’è il rischio che non sia così? «Sì, io temo che Bruxelles dia il via libera a piani che in realtà non rispettano i criteri che abbiamo negoziato». Ecco perché la lettera-monito finisce ora sul tavolo di Ursula von der Leyen e della Commissione. A firmarla sono i co-presidenti del gruppo dei Verdi europei, Ska Keller e Philippe Lamberts, e i cinque europarlamentari verdi del gruppo di lavoro sullo scrutinio del Recovery. Tra questi c’è appunto Damian Boeselager, che dice: «In questa fase dei negoziati, a noi eletti non resta che un soft power. Dobbiamo usarlo tutto, per non far perdere a Commissione e governi la bussola...».

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