L’indicatore più evidente della deriva nazionalista è la questione doganale. Ma concentrare l’attenzione sui regolamenti commerciali non sulle cause culturali e politiche è fuorviante
Un grande discorso, di quelli che non si sentono spesso, perché manca la stoffa, averla «vissuta per raccontarla», direbbe Garcia Marquez. François Mitterrand commenta gli obiettivi del semestre francese a guida dell’Unione. È il 1995, il Fiorentino è alla fine del secondo settennato all’Eliseo e avrebbe tentato il tris, se non fosse per un cancro lo fiacca e lo ucciderà l’anno dopo.
Partendo con autobiografica leggerezza dalla storia politica e umana, Mitterrand ammonisce sul rischio di una guerra e invoca azioni per rinsaldare la costruzione europea nello schema dei fondatori imperniato sulla pace.
Con l’allure oscillante tra il formidabile retore, l’amico poggiato al bancone di un bar parigino e il mentore saggio confortato dall’età, Mitterrand evoca l’infanzia trasudante dolore delle famiglie lacerate, piangenti morti e perpetuamente intrappolate nel rancore e nell’odio per il nemico. Senza lirismo, loda l’audacia di guardare avanti, come Spinelli dalle rocce Pontine nel 1941.
Non un incidente della Storia
Convinzioni pacifiste ed europeiste maturate nel tempo e non per caso. E a quell’espressione – inconsapevolmente o deliberatamente – rimanda il magnifico discorso di insediamento di David Sassoli da presidente del parlamento europeo. Lo stesso davanti a cui Mitterrand sciorina la vita politica e sociale raminga, l’incontro/scontro con i tedeschi, da prigioniero e poi interlocutore.
Lui, figlio della «grandeur», è consapevole che nessuno può affrontare le sfide contemporanee, nemmeno l’amata Francia. La quale, e qui esagera, non «è il paese più nazionalista», ma la utilizza da paradigma nella secolare diatriba con la Germania per indicare il pericolo dello stretto punto di vista da cui ciascuno vede l’altro.
Francia e Germania
Le immagini di quel discorso dicono molto dell’oggi. C’è un ostentatamente attento Jacques Delors, architetto dell’Europa e in predicato di succedere a Mitterrand, proposito da cui recederà. Tutti ascoltano in religioso silenzio, pendono dalle sue labbra, che da consumato leader carismatico si crogiola ragionando sull’Europa. Sanno che Mitterrand, orgogliosamente di parte, fiero socialista, è persona di dialogo.
Lui, senza protocollo o strategia comunicativa da social media, a Verdun nel 1984 stringe la mano al cancelliere Khol che, sorpreso e compiaciuto, gliela serra in un’immagine iconica che salda l’Europa. Francia e Germania, da problema e fonte di conflitti, erano guida del Continente, in un’asse rapidamente vituperato e oggi miseramente naufragato e rimpianto, in assenza di leadership, di idee, di segnali.
Il nazionalismo è tornato a dominare, non all’improvviso, promanando dalle capitali dell’ex Patto di Varsavia, passando per le tolleranti democrazie europee, innervando la scalata di Donald Trump e creando scompiglio interpretativo nelle lande sudamericane guidate da cacicchi travestiti da Caudillos.
Il vero problema
L’indicatore più evidente della deriva nazionalista è la questione doganale. Fuorviante è concentrare l’attenzione sui regolamenti commerciali non sulle cause culturali e politiche. L’autarchia
è stata tratto dei nazionalismi del Novecento, da Caetano a Mussolini. L’escrescenza dei dazi è la manifestazione violenta del nazionalismo, la declinazione commerciale e mercantile, una politica pubblica. Nutrito revisionismo, relativizzazione, mistificazione, equiparazione tra movimenti di emancipazione popolare e regimi autoritari.Un logorio culturale con deperimento delle agenzie – fisiche e immateriali – che avrebbero dovuto ergere un muro alla valanga nazionalista e hanno abdicato sposando un linguaggio, e un pensiero, politicamente corretto, ma spuntato ed inefficace. Il nazionalismo offre un’agenda non coerente, ma adattiva e chiara, mentre il progressismo è in crisi di pensiero. Langue l’agenda sociale, sbandano i partiti, placebo sulle crudeli suddivisioni in classi subalterne, che in un circolo vizioso finiscono per alimentare le forze nazionaliste.
Musk, i dazi e il pensiero debole
È congiunturale, angusto e finanche patetico concentrarsi su (tale) Elon Musk, il cui pensiero politico sfugge alle categorie aristoteliche. Non è estrema destra. Non solo. Non è solo un problema di turbo capitalismo, di dazi doganali. È molto più profondo, antico e perciò pericoloso perché radicato nello spirito umano, nella politica. Un riflesso condizionato, un’ancestrale forma di protezionismo della comunità, paradossalmente “prima” della nazione.
L’abbecedario nazionalista ha diffuso concetti, istillato senso comune, costruito significati e allevato duplicanti in grado di crocifiggere balbettanti neo-progressisti, o liberali à la mode, incapaci di proporre una rivoluzionaria visione alternativa, una Weltanschauung, una ideologia. Partendo da un dato inoppugnabile, indicato da Mitterrand: «Signore e signori, il nazionalismo è guerra!».
Il nazionalismo ordina per criteri razziali, economici, sociali, anagrafici, politici. Una gerarchia che ha un tetro orizzonte diceva Primo Levi, dove un fascismo propone un nuovo verbo, ossia dove «non siamo tutti uguali, non tutti abbiamo gli stessi diritti. Dove questo verbo attecchisce, alla fine c’è il lager».
© Riproduzione riservata