Mentre in Germania s’alza il sipario sulla condotta del clero cattolico, a Roma lo si cala sul papa emerito. Da quando nel dossier stilato dal pool legale Westpfahl Spilker Wast, relativo al modus operandi della diocesi di Monaco e Frisinga nella gestione dei preti pedofili dal 1945 al 2019 – il cardinale Ratzinger è stato tacciato di condotta negligente su almeno quattro casi –  Oltretevere colpisce il silenzio dei mezzi di comunicazione vaticani.

Nessuna difesa d’ufficio è stata finora redatta, e non sono state neppure evocate le parole spese in passato da due personalità note per la loro autorevolezza, vale a dire padre Federico Lombardi, il gesuita portavoce vaticano durante il pontificato di Benedetto XVI, e don Fortunato Di Noto, strenuo nemico della pedofilia da trent’anni con la Fondazione Meter, garante per esperienza diretta della buona fede del papa tedesco.

Così, a varcare l’invisibile fossato tra il monastero Mater Ecclesiae nei giardini vaticani e i palazzi su via della Conciliazione, resta una nota diramata dal segretario del papa emerito, Georg Gänswein: «È stato fatto divieto assoluto di parlare del rapporto per ora», spiegano dentro le mura leonine. Su Vatican News, peraltro, è solo menzionata la ritrattazione diffusa da papa Ratzinger su un colloquio avvenuto negli anni Ottanta, ma niente di più.

Quando la difesa fu immediata

Sarebbe bastato che a parlare fosse stato Lombardi, stretto collaboratore di papa Benedetto XVI, tanto da esserne stato il portavoce fino ai primi anni di Francesco. Il gesuita si è occupato degli abusi in Germania da quando apparirono le prime accuse all’allora pontefice in carica. Era il 13 marzo 2010 quando Lombardi, in una dichiarazione a Radio Vaticana, condannò senza mezzi termini il presunto accanimento dei tentativi di «coinvolgere personalmente il Santo padre nella questione degli abusi».

All’epoca, l’accusa aveva già preso in esame l’anno incriminato, quel 1980 quando Ratzinger - secondo il quotidiano Sueddeutsche Zeitung – venne a conoscenza della condotta di un prete sospettato di pedofilia che, malgrado le prime denunce, era stato trasferito da Essen in Baviera.

I sospetti di inadempienza da parte di Ratzinger – allora responsabile in qualità di arcivescovo della diocesi di Monaco e Frisinga – vennero riequilibrati dalle dichiarazioni del vicario generale Gerhard Gruber, che si assunse la piena responsabilità della scelta nel trasferimento intradiocesano.

Lo stesso si ritrova nel rapporto presentato qualche giorno fa, che tuttavia non sgrava Benedetto XVI delle sue presunte responsabilità come arcivescovo di quella diocesi. Quando nel 2010 furono resi noti i fatti, la reazione di padre Lombardi fu immediata: «È piuttosto evidente che negli ultimi giorni vi è chi ha cercato – a Regensburg e a Monaco –  elementi per coinvolgere personalmente il papa».

Oggi la risposta del portavoce, Matteo Bruni, è la seguente: «La Santa Sede ritiene di dover dare la giusta attenzione al documento, di cui al momento non conosce il contenuto. Nei prossimi giorni, a seguito della sua pubblicazione, ne prenderà visione e potrà opportunamente esaminarne i dettagli». Nessuna difesa d’ufficio, dunque: solo un dichiarazione concisa consegnata da Gänswein all’agenzia cattolica Kna contro il silenzio di un’intera macchina della comunicazione. 

Anche nella galassia dei movimenti cattolici prevale il silenzio. Un’eccezione degna di nota è quella di Comunione e liberazione, movimento che è sempre stato in perfetta sintonia con Ratzinger. «La personalità e l’opera di Benedetto XVI smentiscono le accuse infamanti alla sua persona», ha scritto il presidente del movimento, Davide Prosperi.

Stretto tra due epoche

Nelle ultime ora il clima è pesante: «Si vuole dare una risposta calibrata», riferiscono fonti in Vaticano, che chiedono di restare anonime. Ma la gestione dell’accaduto rischia di paralizzare il papa emerito, depotenziandone il ruolo e lasciandolo solo a difesa di un documento che, con dovizia di particolari, ha registrato 497 casi di abusi su minori con 173 colpevoli.

La posizione di Benedetto XVI è scomoda, perché in mezzo a una tenaglia che rischia di stringerlo. Alle sue spalle ha un predecessore, papa Karol Wojtyła, la cui santificazione impedisce una minima messa in discussione di come trattò i casi negli anni Novanta, il decennio buio degli abusi. Eppure, basta leggere il rapporto sul cardinale statunitense Theodore McCarrick per comprendere come la piaga della pedofilia fu sottovalutata per gran parte del suo pontificato.

Nonostante le accuse che gravavano sul porporato, Giovanni Paolo II lo nominò personalmente arcivescovo di Washington nel 2000. Fu papa Benedetto XVI a cambiare drasticamente la linea, invitandolo a dimettersi spontaneamente dopo la Pasqua nel 2006. Ciò non esclude alcuni limiti nella gestione del caso, ma come rivela il rapporto, Ratzinger pensava di poter «fare appello alla coscienza e allo spirito ecclesiale di McCarrick, indicandogli che, per il bene della Chiesa, avrebbe dovuto mantenere un basso profilo e ridurre al minimo i viaggi».

Ma in Vaticano, tutto tace. Secondo prime indiscrezioni, pare sia stata notata l’assenza di elementi nuovi che incriminerebbero il papa emerito. Deciderà il tempo se sarà necessario apparecchiare un altro altare dell’ipocrisia, secondo l’espressione usata da Francesco per il caso dell’arcivescovo di Parigi, Michel Aupetit.

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