Un’eclatante vittoria, come l’ha definita lei stessa nell’allocuzione a caldo alla platea dei fedelissimi, o l’ennesima prova che il cognome Le Pen impedisce a chi lo porta di accedere alla presidenza della Repubblica, come – ancor prima dei tanti avversari – ha chiosato il rivale Éric Zemmour nel primo commento dopo le due settimane di mutismo in cui si era chiuso dopo il deludente 7 per cento raccolto al primo turno? Il risultato ottenuto da Marine Le Pen, al di là degli inevitabili sbilanciamenti partigiani, si presta in effetti a letture molto diverse, soprattutto nella prospettiva dei poco meno di due mesi che separano la competizione terminata ieri con quella che porterà, fra il 12 e il 19 giugno, all’elezione dell’Assemblea nazionale.

Le aspettative di Marine

L’interpretazione della candidata sconfitta è senz’altro eccessiva, perché fino a poche settimane addietro i sondaggi, pur dandola sempre e comunque perdente, le pronosticavano cifre migliori. A parte il 49-51 di un’inchiesta comparsa all’immediato indomani del primo turno, la forbice si era costantemente mantenuta, per quel che la riguardava, fra i 45 e i 47 punti: essere scesa sotto i 42 non è dunque indice di un successo – e, fra l’altro, conferma una tendenza antica, perché sin dalla prima candidatura nel 2012, e soprattutto cinque anni dopo, il suo risultato effettivo è sempre stato più modesto di quello che le intenzioni di voto lasciavano prefigurare. Tuttavia, altri numeri portano a correggere la prima impressione. Non solo perché il 41,4 per cento è di gran lunga migliore del 33,9 per cento del 2017, ma anche perché, nel confronto delle due occasioni, la sfidante ha fatto registrare una consistente avanzata in termini di voti (circa 2.600.000 in più), in parallelo a un forte calo dei suffragi del presidente uscente (2 milioni in meno).

Il voto negativo

Di vittorie eclatanti, dunque, non ce ne sono state né per Marine Le Pen né per Emmanuel Macron. E la consapevolezza di questo dato è apparsa piuttosto evidente nelle reazioni piuttosto perplesse di molti dei commentatori, sia politici che giornalisti, che si sono finora espressi sull’esito del lungo duello. E si è lasciata intravedere anche nell’affluenza tutto sommato limitata dei sostenitori del riconfermato inquilino dell’Eliseo ai festeggiamenti da tempo organizzati sulla spianata adiacente alla Torre Eiffel. Lo spettacolo di ministri incravattati scatenati nel ballo e l’ovvio entusiasmo dei militanti non ha avuto quell’aspetto di festa popolare che aveva caratterizzato altri dopo-elezioni, sia che a trionfare fossero stati socialisti come Mitterrand e Hollande, sia che il successo fosse arriso ai postgollisti. E il motivo è evidente: Macron non deve la rielezione ad una maggioranza di votanti convinti di aver scelto il candidato migliore, ma ad un fronte composito che si è rassegnato ad utilizzare il voto negativo, cioè ad orientare la propria preferenza verso il meno peggiore, nel dichiarato intento di sbarrare la strada a chi veniva ancora una volta designata come l’incarnazione del Male, il lupo mascherato da agnello, il volto ipocritamente sorridente di un’estrema destra che non può avere che una faccia feroce.

Le Pen ridemonizzata

Da questo punto di vista, se è vero che l’offensiva non è stata, per quantità di soggetti coinvolti nella mobilitazione, paragonabile a quella memorabile del 2002, che aveva visto milioni di contestatori scendere in piazza per due intere settimane per esprimere la propria rabbia dinanzi all’accesso al secondo turno di Le Pen padre, e neppure alla replica in tono decisamente più ridotto del 2017, non si può negare che la campagna antilepenista abbia dato fondo, soprattutto sul terreno giornalistico, a tutte le risorse di cui disponeva. E mentre un settimanale diffuso come L’Obs titolava «Marine Le Pen, se eletta, potrebbe scatenare l’equivalente di 48mila Hiroshima», sostenendo addirittura che l’ipotizzata presidente avrebbe messo la force de frappe nucleare francese al servizio della Russia di Putin, molte altre testate hanno insistito sul Leitmotiv dell’amicizia/complicità passata o presente della leader del Rassemblement national con il capo del Cremlino – tesi che è stata ripresa, con toni quasi sprezzanti, dallo stesso Macron nel dibattito televisivo fra i due turni. Nel frattempo, una delle esponenti più note (e discusse) de La France insoumise sosteneva che, nel deprecato caso di una Le Pen all’Eliseo, le militanti femministe e i sostenitori delle cause Lgbtq avrebbero rischiato la vita.  Non è improbabile che argomentazioni ri-demonizzanti come queste, ma anche molte altre di calibro più limitato, spese abbondantemente fra il primo e il secondo turno, abbiano sortito effetti su un buon numero di elettori altrimenti tentati dall’astensione (che ha sì toccato un record per questo tipo di elezioni, con il 28,2 per cento, ma è rimasta al di sotto delle previsioni, così come è capitato con le schede bianche e nulle).

Indagare i flussi

Le prime indagini sui flussi di voto indicano infatti che Macron ha potuto contare nel ballottaggio sull’apporto del 42 per cento di coloro che avevano scelto al primo turno Mélenchon – molti di più rispetto alla previsioni, del 65 per cento dei sostenitori del verde Jadot, del 53 per cento della centrista Pécresse e persino del 10 per cento di elettori di Zemmour. Mentre il serbatoio aggiuntivo dell’avversaria si è limitato al 17 per cento di mélenchonisti, al 6 per cento di verdi, al 18 per cento di Républicains e al solo 73 per cento di sostenitori di Zemmour. Dati che forniscono perlomeno due piste di riflessioni.

Il fronte e la base

Da una parte, è chiaro che, per la seconda volta, Macron è riuscito a convogliare sulla sua persona due blocchi elettorali che per molti versi sono all’opposto: simpatizzanti della sinistra radicale che, per quanto ne detestino in massima parte le politiche economiche e sociali ne apprezzano – sia pur limitatamente – le scelte culturali nettamente orientate in senso progressista, ed in particolare i giudizi positivi verso l’accentuarsi dei caratteri multietnici  multiculturali del paese, ed elettori della destra moderata, o centrodestra, o “destra molle”, come da sempre la definiscono i lepenisti, che viceversa ne avversano proprio l’impostazione culturale e l’azione in campi come la sicurezza e l’immigrazione ma vedono con occhio favorevole le politiche liberiste in economia e l’allineamento alle direttive dell’Unione europea nel campo delle privatizzazioni dei servizi e dell’austerità in ambito economico (fino alla obbligata inversione di tendenza dettata dall’emergenza-covid). Questo curioso combinato disposto garantisce a Macron una maggioranza puntuale quando si tratta di riattivare il “fronte repubblicano” in funzione anti-populista, ma lo lascia privo di una propria solida base di sostegno ogni volta che l’allarme su un Annibale alle porte svanisce e ci si trova di fronte vai problemi della quotidianità. Si spiega così il paradosso per cui il presidente che, dopo Hollande, ha fatto registrare durante il quinquennio di potere il tasso più elevato di ostilità in seno all’opinione pubblica sia riuscito ad ottenere la riconferma con un margine piuttosto alto.

La borghesia e la periferia

Il secondo punto su cui occorre riflettere è che, sebbene neanche questa volta sia riuscito ad avere la consistenza richiesta, il fronte alternativo populista ha ripreso vigore e raggiunto proporzioni mai avute prima. Marine Le Pen è arrivata anche questa volta nettamente in testa nelle zone che costituiscono la “Francia periferica”, e perfino in quasi tutti i territori d’oltremare, a partire da Martinica e Guadalupa – il che, dato il colore di pelle degli abitanti, ridimensiona notevolmente l’argomentazione secondo cui “Marine” sarebbe stata vista come la candidata del razzismo – fino a giungere ai “territori dimenticati” della Francia profonda e rurale. Sono invece le grandi città, e le cinture urbane dove è ormai maggioritaria la presenza di immigrati naturalizzati di confessione musulmana, ad esprimere un rigetto nei confronti della figlia del non (ostilmente) dimenticato e tuttora vivente ed esternante Jean-Marie Le Pen. In altre parole, e al di là di quest’ultima categoria di cittadini, che in gran parte si è riversata su Mélenchon, è in gran parte la borghesia medio-alta a sostenere il “soffitto di vetro” all’apparenza ancora impenetrabile che impedisce ai populisti di conquistare una maggioranza nell’elettorato francese. Zemmour aveva sognato di sedurre un’ampia fetta di questa platea e, giungendo al secondo turno, aggiungerla all’elettorato popolare lepenista per sbalzare di sella Macron. Il suo rovescio ha dimostrato che quella strategia era impraticabile. Resta ora l’occasione delle legislative per vedere se, per un’altra via e con una leadership diversa (Marine Le Pen ha accantonato subito ogni proposito di ritiro dalla scena), quell’obiettivo potrà dimostrarsi praticabile.

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