La giurista Anu Bradford della Columbia University è riuscita, in punta di diritto, a fare scalpore. Mentre l’Unione europea gestisce la pandemia, le polemiche sui vaccini, l’addio di Londra, la gestione dei flussi migratori, e mette a nudo criticità e debolezze, Bradford arriva con le sue cinquecento pagine per dire che «l’Europa è una potenza normativa globale». Il suo libro Effetto Bruxelles, che per Foreign Affairs «potrebbe risultare per anni il libro più importante sul ruolo e l’influenza dell’Europa nel mondo», arriva ora in Italia, edito da Franco Angeli.

Oggi c’è l’inaugurazione ufficiale della Conferenza sul futuro dell’Europa, che dovrebbe essere un momento di partecipazione democratica e su cui fino a ieri le istituzioni hanno litigato: l’Europarlamento pretende che all’ascolto seguano i fatti. Sempre oggi, 9 maggio, dal 1950 della dichiarazione Schuman, è la festa dell’Europa.

Lei è convinta che abbiamo davvero di che festeggiare. Perché?

Mi sento un po’ una demistificatrice. Il mio libro è un debunker: smaschera questa idea che l’Ue sia fragile e ininfluente sul piano globale. La mia analisi dimostra il contrario: l’Unione è molto influente ed è anche molto capace di plasmare tanto i mercati che la vita quotidiana delle persone. Come ci riesce? Regolando. Con i suoi regolamenti, le sue norme, ha un potere tale da condizionare tutto, dal cibo che mangiamo all’aria che respiriamo, ai prodotti che produciamo e consumiamo. Penso ai regolamenti che tutelano l’impatto ambientale, a quelli che proteggono la riservatezza dei nostri dati personali, a ciò che l’Ue fa per garantire competitività e pluralismo. Con le sue regole stringenti l’Europa condiziona il comportamento delle aziende non solo in Ue ma in tutto il mondo: ecco perché dico che è una potenza normativa globale, che detta legge sui mercati.

Questa potenza ha bisogno di darsi una governance meno ibrida e più democratica? La conferenza che inizia oggi è un’occasione per stabilire equilibri istituzionali nuovi? Al momento a “dettar legge” sono soprattutto i governi.

Non possiamo perdere la fiducia dei cittadini, ma non esagererei le dimensioni del deficit democratico. Certo, la Commissione non è direttamente eletta, ma i cittadini scelgono gli europarlamentari; e il Consiglio, cioè i governi, in teoria in patria deve dar conto delle sue decisioni. Io sono finlandese ma vivo e insegno negli Usa. Se osservo i due contesti, vedo che negli States l’influenza delle corporation nella elaborazione delle politiche è decisiva, mentre Bruxelles procede ricorrendo a consultazioni di portatori di interesse, di ong, della società civile.

Proprio le ong, e in particolare quelle – come Corporate Europe Observatory o The Good Lobby - che monitorano l’influenza delle corporation nel processo decisionale, rilevano in realtà una crescente pressione lobbistica su Bruxelles. Un esempio concreto è il lobbying di Big Pharma sulla Commissione europea.

C’è una pressione crescente, che proviene anche dagli Stati Uniti e dalle aziende Usa. Penso ai colossi tech: è appurato che stanno aumentando sforzi e risorse per fare lobbying nella speranza di condizionare le scelte europee. Il punto chiave è la trasparenza: poter tracciare e documentare gli incontri, la durata, e così via, è il preludio al controllo democratico e quindi al dibattito pubblico. In questo senso, è importante che l’Unione europea rafforzi le proprie regole e pratiche sulla trasparenza.

Lei dice che sul piano globale l’Ue è una potenza normativa. Al suo interno fatica a garantire la “rule of law”, lo stato di diritto. Penso al pluralismo dei media in Ungheria, all’indipendenza dei giudici in Polonia. Non è paradossale che dettiamo legge fuori confine ma non riusciamo a garantire l'equilibrio di poteri dentro l’Ue?

Questo è un punto cruciale. Ho scritto un libro sull’Europa campionessa del diritto ma questo non mi rende certo cieca sull’erosione dello stato di diritto che è in corso. Quando si parla di influenza globale, va detto che l’Ue non rimarrà nella posizione di farsi rispettare se non agisce anche su sé stessa.

In che modo il mancato rispetto dello stato di diritto all’interno dell’Unione sminuisce il nostro potere globale?

L’erosione delle democrazie liberali è una tendenza a livello internazionale. Se l’Ue vuole invertire il trend, se vuole andare a dare lezioni al Brasile o alla Turchia, agli altri paesi, deve prima affrontare le sue vulnerabilità, a cominciare da quel che sta accadendo in Ungheria, in Polonia. Altrimenti non è un attore credibile, né sul piano interno né a livello globale; la sua influenza è a rischio.

Qual è una strada possibile per rinforzare diritti e democrazia dentro l’Unione? Lei si occupa di diritto e proprio la Corte di giustizia Ue – penso alla sentenza Cassis de Dijon del 1979 – ha avuto un ruolo di apripista anche per l’integrazione europea. Che leve hanno gli europei per irrobustire l’Unione dei diritti?

La sfera giudiziaria europea, la Corte Ue, è sempre stata d’avanguardia nel segnalare le derive illiberali, e ha condannato con decisione quello che stava accadendo in paesi come Polonia e Ungheria. Il punto è che per come sono concepiti i trattati non può fare tutto la Corte da sola, è determinante che anche la politica faccia la sua parte. La scelta del partito popolare europeo di divorziare da Fidesz, il partito del premier ungherese, arriva in gran ritardo ma andava fatta, così come è importante aver inserito nel piano di ristoro comune il meccanismo che condiziona i fondi europei al rispetto della rule of law.

A Bruxelles il principio del momento è la «autonomia strategica». La potenza normativa globale, come la chiama lei, rischia di ripiegarsi su sé stessa?

Se non boccio questo principio è solo perché mi auguro che non venga declinato nel senso di una chiusura. Ci servono alleati e la cooperazione è fondamentale. L’Unione è forte quando rimane aperta. Va detto che l’esperienza della presidenza Trump ha insegnato all’Europa che non può rimanere alla mercè di quel che fa la Casa Bianca: in un mondo volatile è pericoloso dipendere dagli altri. Chiudersi non è la soluzione; l’ambizione lo è. L’effetto Bruxelles è capace di rallentare il declino della globalizzazione. L’Europa deve credere nella propria capacità di influenzare il commercio e la filiera internazionali. In quanto superpotenza regolatoria, deve agire, in attacco e in difesa; e deve investire nelle proprie capacità.

Lei scrive che l’effetto Bruxelles è lampante nell’ambito tecnologico. Ciò che l’Ue ha fatto sulla privacy è una prova di ciò di cui l’Europa è capace. Ciò che l’Ue farà sull’intelligenza artificiale determina la sua influenza futura. In che modo?

Temo che la maggior parte degli americani non ne sia consapevole, ma la general data protection regulation (gdpr), la normativa europea sulla privacy in vigore dal 2018, ha avuto il potere di determinare il modo in cui è configurato il loro telefonino. I colossi digitali hanno – malvolentieri – dovuto adottare gli standard impegnativi che l’Unione ha preteso per i suoi cittadini. Una volta che le aziende investono per adeguarsi, conviene anche a loro che ci sia una armonizzazione a livello internazionale. Adesso Google, Facebook, Apple usano la gdpr e l’intero mercato globale si è riformulato sulle nuove norme europee. Ovviamente anche le regole Ue per la privacy sono migliorabili: le riforme richieste alle aziende per via della gdpr pesano molto di più, in termini di risorse, per le piccole aziende, e questo può finire per avvantaggiare i colossi e le tendenze monopolistiche. L’effetto Bruxelles va preso sul serio: l’Ue è capace di dettar legge nel bene e nel male; questo potere va usato nel modo giusto.

Perché il futuro regolamento europeo sull’intelligenza artificiale può fare la differenza?

Per due motivi. Il primo è che non si tratta di mere regole di settore, visto che l’intelligenza artificiale riguarda e permea ogni ambito della società: una buona regola, o una cattiva regola, ha effetti ampi e potenti. Il secondo è che dobbiamo contare sull’Unione per contrastare il capitalismo della sorveglianza. Questo è un ruolo che spetta a Bruxelles, non saranno Pechino o Washington a farlo.

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