La politica agricola comune è un pezzo di storia dell’Europa unita. Da quest’anno rischia di tramutarsi da politica storica a vecchia politica, incapace di interpretare i cambiamenti. A cominciare da quello climatico: Greta Thunberg, iniziatrice dei Fridays for future, lo sa bene, e lancia l’hashtag #withdrawthecap, “Ritirate la Pac”. La riforma non piace agli ambientalisti, preoccupa i piccoli agricoltori, ma è riuscita a coalizzare i grandi gruppi politici europei e a mobilitare le lobby. Questa lotta in stile Davide contro Golia verte su una politica che durerà sette anni e vale 400 miliardi di euro, circa un terzo del bilancio europeo.

Una riforma nata vecchia

La politica agricola in Europa è sempre stata importante, pure troppo. Nel 1962, «nasce per un’Europa che esce dalla guerra affamata e deve raggiungere l’autosufficienza alimentare», dice l’agroecologo Andrea Ferrante. «Con i grandi accordi commerciali internazionali, negli anni Ottanta, si trasforma: l’obiettivo diventa la produttività, al punto da incentivare il surplus agricolo». Negli anni Novanta le accuse di competizione sleale e gli scandali del cibo in eccesso finito distrutto portano a una prima svolta. «Ma il risultato è stato un sistema altrettanto demenziale: prima i contributi premiavano chi produceva di più, ora chi possiede più terra». Più ettari, più soldi.

Nel 2016 comincia il dibattito sulla formulazione della Pac 2020, che è di durata settennale come il bilancio Ue. Nel 2018 arriva la proposta legislativa della Commissione Ue. All’epoca, il presidente è Jean-Claude Juncker. Quando Ursula von der Leyen si insedia annuncia che il Green Deal e gli obiettivi climatici saranno la sua priorità. Peccato che però prenda la proposta del 2018 e la faccia sua; la linea attuale nasce quindi già vecchia. La proposta Juncker è già stata bocciata sia dalla Corte dei conti europea che dagli scienziati, che avvertono: è poco ambiziosa e sarà fallimentare per la biodiversità, il clima, le sfide socioeconomiche.

Eppure Von der Leyen la difende dalle accuse, e così fa la presidenza tedesca, che spinge l’iter in avanti: a fine ottobre l’Europarlamento approva la sua proposta, da allora si susseguono i negoziati tra parlamento, Commissione e Consiglio. La previsione è che la versione finale della riforma verrà sdoganata tra primavera ed estate.

L’espulsione dei “piccoli”

Tra i problemi che la riforma non risolve c’è il processo di concentrazione fondiaria. Tra 2005 e 2016, il numero di aziende agricole in Ue è diminuito di un quarto: quattro milioni e 200mila aziende in meno, di cui l’85 per cento piccole. Benoit Biteau è un agronomo e contadino francese, undici anni fa l’allora ministro Michel Barnier lo premiò per la sua agricoltura sostenibile e responsabile.

Oggi, da europarlamentare verde, è contro questa riforma: «Non cambia nulla rispetto a prima, dicono che sarà più verde ma premiano sempre gli stessi: chi ha più terra, chi usa pesticidi». Ora l’80 per cento di aiuti finisce concentrato sul 20 per cento dei più grandi proprietari terrieri. In alcuni paesi, come l’Ungheria, significa foraggiare la cerchia di oligarchi vicini al premier. Ovunque, significa premiare chi possiede più terra (e non chi dà più lavoro, come chiedevano i Verdi). Socialdemocratici, popolari e liberali hanno approvato compatti la loro proposta spazzando via la sfilza di emendamenti green. Uno scoraggiava gli allevamenti intensivi, «che hanno conseguenze drammatiche su salute pubblica, emissione di gas a effetto serra, risorse e benessere animale». Bocciato, e anzi: ora si parla di premiare chi ha più capi di allevamento.

Il rapporto Farming for failure di Greenpeace dice che il settore zootecnico è responsabile del 70 per cento delle emissioni dirette agricole a livello globale: quanto i trasporti (macchine, camioncini). L’Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale denuncia il preoccupante legame tra allevamenti intensivi, particelle sottili e quindi malattie.

E il clima?

Rimarrebbe, a salvare il clima, il greening, o “ecoschema”: si tratta di preservare il 30 per cento dei pagamenti diretti per stili virtuosi di coltivazione. Marco Contiero, dell’unità brussellese di Greenpeace, avverte che neppure quello salverà la coscienza d’Europa. «In passato questo sistema non ha dato risultati, inoltre ciascuno stato potrà scegliere quali schemi premiare: sta alla volontà dei governi»; chi è virtuoso rischia di finire svantaggiato. Gli ambientalisti come ClientEarth e Greenpeace avvertono che questa Pac viola gli impegni del Green Deal, minacciano azioni legali. Il commissario di riferimento per il Deal, Frans Timmermans, sta cercando di rassicurare Thunberg che la Pac diventerà più verde.

Ma perché sta andando così? Il Corporate Europe Observatory punta il dito sul ruolo delle lobby, sia dei grandi agricoltori (Copa-Cogeca) che dei produttori di pesticidi (Bayer-Monsanto, Syngenta, Basf) e delle multinazionali (come Nestlè). Tra gli architetti di questa Pac c’è un europarlamentare italiano, il socialdemocratico Paolo De Castro. «Non si può per il clima sacrificare gli agricoltori: devono stare sul mercato per essere competitivi, Trump ha riempito di aiuti le imprese agricole Usa» dice.

Non si potrebbero usare i fondi proprio per finanziare la transizione a una agricoltura più ecologica? «Per quello c’è Next Generation Eu». E a Thunberg cosa risponderebbe? «Con tutto l’affetto per lei, la politica agricola esiste da mezzo secolo, non so se Greta conosce i sacrifici degli agricoltori, andasse a parlare con il nostro punto di riferimento, Copa-Cogeca». Uno dei più forti gruppi di interesse del mondo agricolo di un’Europa dove i piccoli sono sempre meno.

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