Voleva restare in Europa, e le è toccata Brexit. Voleva l’indipendenza dalla Londra conservatrice, ma un verdetto pronunciato dalla Corte suprema il 23 novembre frena un nuovo referendum. È la storia della Scozia, o almeno di una buona parte di scozzesi che si sente in trappola. «La sensazione è quella di non avere scelta», si sfoga Lynzi Leroy, che anche oggi rinnova a vuoto la sua fede indipendentista, tra le mura di una chiesa sconsacrata di Edimburgo, il Tron Kirk Market, che Leroy ha trasformato in uno spazio per artisti locali. La premier scozzese Nicola Sturgeon vorrebbe convertire ogni ostacolo sulla strada dell’indipendenza – anche il verdetto negativo della Corte – in un catalizzatore di consenso per le prossime elezioni. I politici locali di più lungo corso – gente come Fiona Hyslop che è stata al governo per lo Scottish National Party per più di un decennio – si dicono convinti che il no dei giudici non potrà che dare «nuova energia» alla causa. Ma la verità è che la Scozia in questo momento è in trappola: il dibattito interno e il paesaggio politico sono praticamente congelati. Da troppo tempo ormai, tutto ruota attorno al divorzio da Londra. Il cleavage – la linea di divisione – non è più fra destra e sinistra, ma tra indipendentisti e unionisti. La bandiera dell’Ue, che qualche manifestante ha esibito a Edimburgo il giorno del verdetto, è diventata l’ultimo appiglio per uscire dallo stallo.

Traditi da Londra

Rishi Sunak, right, with Nicola Sturgeon, Jeremy Hunt, on screen left, First Minister of Wales Mark Drakeford, on screen right, and Michael Gove. (Cameron Smith/Pool via AP)

Le scelte fatte a Londra hanno un ruolo doppio: da una parte hanno stimolato il movimento indipendentista, dall’altra lo hanno boicottato. Negli anni di Margaret Thatcher, la Scozia era il contraltare laburista; ed è stata la austerity di David Cameron a favorire il boom elettorale del partito indipendentista Snp. La storia dell’indipendentismo scozzese è anzitutto la storia di una distanza politica, tra le politiche conservatrici di Londra e il miraggio della socialdemocrazia scandinava a Edimburgo. La stessa carriera politica di Sturgeon nasce dal rigetto per le politiche thatcheriane: come ha raccontato, «da adolescente ho visto gli effetti delle sue politiche, i tanti disoccupati, e ciò ha sollecitato il mio senso di giustizia sociale».

La consapevolezza delle proprie risorse economiche – quell’affaccio sul Mare del Nord ricco di petrolio e salmoni – ha alimentato le prime spinte indipendentiste, ma il nazionalismo economico degli anni Settanta non è bastato a far raggiungere il quorum nel primo referendum per la devolution, quello del 1979. Il secondo, nel 1997, è andato a segno e ha portato all’insediamento, due anni dopo, del parlamento “devoluto”, con qualche spazio di manovra. Il vero scossone arriva ad ogni modo con l’èra Cameron, perché si innescano due fattori: da una parte, una politica di austerità conservatrice che a molti scozzesi risulta indigesta; dall’altra, il crollo del partito laburista scozzese dopo anni di egemonia. I due fattori, combinati insieme, danno la spinta allo Scottish National Party, il partito indipendentista oggi al governo. Nel 2011 inizia la grande scalata dell’Snp, che mangia voti a sinistra al Labour, e cavalca il tormentone indipendentista. 

La trappola

L’Snp punta su un nazionalismo agli antipodi rispetto ai sovranismi dell’Europa continentale: quello scozzese è un nazionalismo civico, inclusivo nei confronti dei migranti, orientato a sinistra sul fronte dei diritti sociali e civili. Dal 2012 inizia una grande mobilitazione, che si rivela insufficiente per vincere il referendum sull’indipendenza del 2014, ma che basta a trasformare l’Snp nel partito egemone a livello nazionale; nel 2015 i labour perdono tutti i seggi tranne uno. È con il primo indy ref che Londra innesca anche la prima grande trappola, e all’epoca lo fa con la complicità di Bruxelles. L’allora presidente della Commissione Ue José Barroso spalleggia Westminster: nel febbraio 2014 dice che, se ci si stacca, la permanenza nell’Ue diventa ardua. «Extremely difficult, if not impossible». Una delle principali ragioni per le quali otto anni fa il sì all’indipendenza non ha superato il 45 per cento dei voti risiede proprio nel profondo sentimento europeista degli scozzesi. Un paradosso, visto che a stretto giro, nel 2016, essere rimasti nel Regno Unito li costringe a lasciare l’Ue. Eppure il 62 per cento, in Scozia, aveva votato per il remain. «Sono cose del passato», dice Foysol Hussain Choudhury, che siede nel parlamentino scozzese da laburista e da unionista: «Quel che è successo è successo». Nel tentativo di dimenticare quelle contraddizioni, laburisti e conservatori – da unionisti – sono uniti, appunto. 

Cosa succede ora

(Le proteste degli indipendentisti il 23 novembre, giorno del verdetto della Corte, davanti al parlamentino scozzese a Edimburgo. Foto FDB)

Sturgeon, che è diventata premier proprio subito dopo la sconfitta del 2014 e le dimissioni di Alex Salmond, non ha mai mollato il tormentone indipendentista, e anzi lo ha sapientemente intrecciato con la causa europeista. Chiede quindi un altro referendum, ma a Westminster non vogliono saperne, e con il verdetto del 23 novembre la Corte suprema ha ribadito che senza un sì da Londra il voto non è legittimo. «Il verdetto è chiaro e definitivo», ha subito precisato il premier britannico Rishi Sunak. «C’è ben altro a cui pensare: la guerra in Ucraina, la crisi energetica...», gli fanno il coro gli eletti unionisti al parlamentino scozzese, non importa se conservatori o laburisti. 

Cosa farà ora Sturgeon? Anzitutto, è chiaro ciò che non farà: non intende imitare i leader catalani e indire un voto considerato illegale. «Accetto il pronunciamento della Corte: il nostro percorso per l’indipendenza deve avvenire nel rispetto della rule of law», ha detto Sturgeon. Non significa la resa: «La Corte fa applicare le leggi, non le scrive; se le regole sulla devolution del 1998 non ci consentono l’esercizio democratico, la responsabilità è di Westminster». La strada sarebbe un accordo col governo britannico per votare, ma non è praticabile. Dunque ecco il piano di Sturgeon: «Trasformeremo la prossima elezione generale in un referendum de facto per mostrare cosa pensiamo». 

La pillola amara

(La solidarietà alla Scozia il giorno del verdetto si è diffusa in tutta Europa. Gli attivisti di Europe for Scotland hanno manifestato in svariate capitali: qui, Roma. Foto EFS)

Ecco perché i politici di lungo corso dell’Snp, come l’ex ministra Fiona Hyslop, sono convinti che il verdetto della Corte in realtà «rinvigorirà il movimento» e snocciolano il sondaggio che dà l’Snp al 50 per cento alle prossime elezioni. La speranza è proprio che gli ostacoli al referendum –  le «pillole amare» come le chiama Sturgeon – scatenino reazioni e portino voti all’Snp. Il numero di persone accorse il 23 novembre pomeriggio sotto il parlamentino scozzese, a Edimburgo, lascia pensare che Sturgeon ci abbia visto giusto. Del resto è una maga della comunicazione. Durante la pandemia il suo stile empatico la ha fatta amare, al contrario di Boris Johnson; e i flop dei conservatori, tra i quali la meteoritica Liz Truss, sommati alle debolezze del leader laburista Keir Starmer, fanno di Sturgeon la vera spina nel fianco di Sunak. In più, dalla sua parte la prima ministra si ritrova gli europeisti, scozzesi e non: il giorno del verdetto, gli attivisti della campagna Europe for Scotland protestavano pure nelle capitali europee.  Sturgeon e l’Snp rimangono egemoni alla guida del paese, nonostante i tentativi del suo ex mentore Salmond di minarne il consenso con un nuovo partitino indipendentista, Alba, e nonostante qualche voto di dissenso vada ai Verdi. Non c’è piano B.

Una politica «tribale»

Uno scenario così incancrenito produce effetti poco salutari. «Prima del 2014, c’era anche chi votava l’Snp per motivi diversi dall’indipendenza. Dopo l’indy ref del 2014 e il voto su Brexit del 2016, invece, la dinamica politica scozzese ha assunto connotazioni tribali: se vuoi il divorzio da Londra voti l’Snp, se vuoi restare nel Regno voti laburisti, conservatori e liberali», nota il politologo Christopher Carman dell’università di Glasgow. L’effetto paradossale è che «se alle prossime elezioni britanniche i laburisti avranno chance di rimpiazzare i conservatori, alcuni scozzesi si troveranno nell’imbarazzante conflitto interiore: scegliere l’Snp per l’indipendenza? O i labour per un’alternativa alla destra?». Sturgeon chiede lealtà all’indipendenza. Così dopo aver subìto i paradossi di Londra, ora gli scozzesi sono vittime dei propri. Il primo è che l’Snp, che aveva rimpiazzato la logora egemonia laburista scozzese, sta diventando il logoro egemone. Il secondo è che per spolpare il tormentone indipendentista, Sturgeon rischia di fare un favore alla destra britannica. 

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