I massimi vertici dell’Unione europea – la litigiosa coppia composta da Ursula von der Leyen e Charles Michel – questo venerdì incontrano Volodymyr Zelensky nel paese in guerra. Questo è il 24esimo summit europeo-ucraino, ma è il primo da quando Bruxelles ha dato il via libera al percorso di allargamento.

Lo status di paese candidato però non basta, all’Ucraina, che ha fretta di legare il suo destino a quello dell’Unione europea. La dichiarazione ambiziosa del premier ucraino, che promette un paese pronto all’ingresso già nel 2026, è solo il caso più evidente. La vera dimostrazione di quanto il governo di Kiev spinga sta nel modo in cui l’Ucraina ha accolto il plotone di commissari europei: con una maxi retata.

Mercoledì scorso, proprio alla vigilia dell’arrivo di Ursula von der Leyen e della sua squadra, i servizi segreti ucraini hanno divulgato le immagini della perquisizione in corso nella casa dell’oligarca Ihor Kolomoisky, uno dei più ricchi del paese. La preparazione di un contesto favorevole agli investimenti occidentali è stata il vero elemento catalizzatore che ha determinato la concessione dello status di candidato all’Ucraina: il percorso di adesione comporta riforme, e le riforme sono il grimaldello col quale l’establishment europeo intende colpire gli interessi costituiti degli oligarchi e la corruzione diffusa nel paese. Zelensky lo sa, ed è per questo che il segnale su Kolomoisky è un messaggio preciso a Bruxelles: serve a far percepire la volontà politica di affrontare il nodo corruzione.

E l’Europa, in tutto questo?

L’ingresso in Ue

Come è sempre stato quando si è trattato dell’ingresso dell’Ucraina, la posizione dell’Unione europea è composita. La Polonia e i paesi baltici spingono in avanti, come del resto fanno anche sul dossier del sostegno militare. Ma dall’inizio questa corsa all’ingresso di Kiev va contemperata coi timori di creare squilibri interni, visto che ci sono paesi che da anni attendono invano l’ingresso.

La Germania in questi mesi sta perorando a tutta forza un avvicinamento dei Balcani occidentali: Olaf Scholz si è impegnato pubblicamente su questo, e a parole prima di lui anche Angela Merkel. Ora ci si mette pure il governo Meloni a volere «più Italia nei Balcani». Un sorpasso di Kiev risulterebbe come un affronto all’Albania e agli altri in coda.

L’eco di queste complessità si percepisce nella bozza preparatoria del summit. Allo stesso tempo, è ancora valida quella volontà politica che aveva consentito a Mario Draghi, a giugno scorso, di far salire Olaf Scholz ed Emmanuel Macron sullo stesso treno: quello per Kiev, e per lo status di paese candidato. La ragione dirimente è che una volta avviato il percorso per l’ingresso, l’Ucraina deve lavorare a un pacchetto di riforme concordate con Bruxelles: ogni paese che entra deve recepire l’acquis communautaire, l’apparato condiviso di diritti e doveri.

In attesa della prima verifica formale della Commissione Ue su questo percorso di avvicinamento – che si terrà tra primavera ed estate – la bozza del summit riconosce qualche progresso ma insiste sulle riforme da fare, a cominciare dalla sfera giudiziaria.

Una governance ibrida

Il tema dello stato di diritto è strettamente connesso con quello degli investimenti. La Confindustria nostrana ha siglato già a giugno con Kiev un Memorandum of understanding, e a luglio von der Leyen strigliava il parlamento ucraino perché «tirasse fuori i denti» con gli oligarchi.

Se c’è un principio che Bruxelles riconosce anche per iscritto, è che «bisogna assicurarsi che riforme e investimenti vadano di pari passo». C’è da aspettarsi che dal summit – al di là delle timidezze sulla data di ingresso – ci saranno aperture concrete per quel che riguarda l’integrazione dell’Ucraina sul versante energetico (von der Leyen ieri ha già parlato del coinvolgimento di Kiev negli acquisti comuni) e delle telecomunicazioni, insomma i passi avanti saranno pragmatici più che dichiarati.

L’Ue ne ha già fatto uno ingombrante: a dicembre, liberandosi finalmente dall’ostruzionismo di Budapest, il Consiglio non ha soltanto dato il via a 18 miliardi di assistenza. Ha fatto qualcosa di ancor più interessante: per dare aiuto ha utilizzato lo stesso schema che sta dietro a “Sure”, il sistema inaugurato come cassintegrazione Ue durante la pandemia. Consiste in prestiti agevolati con garanzie comuni. L’idea di una replica di Sure per aiutare il sistema produttivo europeo provato dalle crisi circola invano da mesi: quando von der Leyen, facendo il gioco di Berlino, continuava a rinviare il tetto ai prezzi, i commissari Gentiloni e Breton lo avevano lanciato come strumento di compensazione, per ammorbidire le tensioni. Ma lo sforzo era caduto nel vuoto. Lo schema in stile Sure è stato avallato invece per Kiev.

L’Ue fa la sua parte, ma poi il sistema di aiuti europei finisce per rispondere a una governance ibrida: partecipa a una piattaforma dei donatori più ampia – la Multi-agency Donor Coordination Platform – che comprende la Bei, il G7 dunque anche gli Usa, il Fondo monetario internazionale, altri donatori.

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