La Germania si reca alle urne in un contesto di profonda crisi politica, con i partiti tradizionali sempre più minacciati dall’ascesa dell’estrema destra dell’AfD. La composizione della futura coalizione di governo dipenderà in larga misura dalla capacità dei partiti minori, come i Die Linke e i Liberali dell’FDP, di superare lo sbarramento del 5 per cento, necessario per entrare in parlamento.

È probabile che la Germania si trovi ad avere un governo debole e poco omogeneo, frutto di compromessi tra forze politiche distanti tra loro. Si preannunciano quindi tempi difficili per una Germania costretta a confrontarsi con la necessità di ripensare in profondità il proprio modello economico. L’economia è in quasi tutti i sondaggi la preoccupazione principale degli elettori.

Crescere esportando

Il “modello tedesco” è incentrato sulla crescita tirata dalle esportazioni. Tra l’inizio degli anni Duemila e il 2019 la Germania si è trovata a beneficiare di un contesto estremamente favorevole. Intanto, con l’arrivo della Cina sulla scena internazionale (la data simbolo è l’entrata nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, nel 2001): in primo luogo, come acquirente dei beni intermedi e macchinari necessari allo sviluppo industriale; poi, come mercato di sbocco, con una classe media sempre più ricca e numerosa che anelava i beni di fascia alta che il paese all’epoca ancora non produceva (a fare le spese della concorrenza cinese sui prodotti a basso valore aggiunto erano inizialmente le imprese dei paesi mediterranei); infine, ma non da ultimo, le imprese tedesche hanno delocalizzato in Cina per approfittare di manodopera sempre meglio formata e a basso costo.

La delocalizzazione di molte fasi del processo produttivo è avvenuta anche verso i paesi dell’est europeo, dopo l’allargamento del 2004. Con salari modesti e valute deboli rispetto all’euro, questi paesi hanno progressivamente sostituito con componenti a prezzi stracciati i paesi del bacino mediterraneo come fornitori delle imprese tedesche.

I costi di produzione sono stati ulteriormente ridotti dall’energia fossile a basso costo importata soprattutto dalla Russia e da una dinamica salariale a lungo inferiore alla crescita della produttività. Questa è frutto di un mercato del lavoro dualistico in cui dopo le riforme Hartz dei primi anni Duemila convivono lavoratori protetti e molto ben pagati nei settori esportatori e lavoratori precari a basso salario nei settori che producono i beni intermedi.

Hybris

I bassi salari e l’ossessione per la frugalità, pubblica e privata, hanno quindi compresso la domanda domestica e trasformato l’economia tedesca, grazie alle condizioni favorevoli del periodo, in una poderosa macchina da esportazioni. Questo sembrava un modello vincente, tanto che, durante le molte crisi degli scorsi decenni economisti e uomini politici tedeschi hanno a brutto muso cercato di imporlo ai propri partner europei, dimenticando intanto che il successo tedesco era in parte il frutto di circostanze fortuite; poi, che gli eccessi di spesa dei paesi come la Grecia, la Spagna e l’Irlanda erano speculari all’insufficienza di spesa tedesca e contribuivano al successo del modello di crescita basata sulle esportazioni.

Con una certa hybris le classi dirigenti tedesche hanno ignorato l’allineamento degli astri alla base della performance del paese, e non si sono quindi preparate all’eventualità che questo venisse meno. Per anni, chi si preoccupava della stagnazione dei salari e della domanda domestica, o del graduale deterioramento dello stock di capitale causato dall’insufficienza di investimenti pubblici e privati, o ancora dell’eccessiva dipendenza dalle energie fossili, è stato zittito vantando i successi delle imprese tedesche nel mondo e gli enormi profitti; profitti che però, invece di essere reinvestiti nell’economia di casa, partivano all’estero (l’esportazione dei capitali è la contropartita contabile degli avanzi commerciali).

Il giocattolo si è rotto

Il resto è storia recente: gli astri si sono disallineati. Il Covid ha rivelato la fragilità delle catene globali del valore e di un modello di crescita basato sulla minimizzazione dei costi; la crescente instabilità geopolitica e la fine del sistema di libero commercio basato sulle regole multilaterali dell’OMC rende difficile anche solo mantenere le quote di mercato delle imprese tedesche nel mondo.

La cronica mancanza di investimento oggi presenta il conto, con infrastrutture fatiscenti e capitale privato obsoleto; insieme alla fine dell’energia a basso costo questo provoca un crollo della produttività e un aumento dei costi. Infine, il “dividendo cinese” si è invertito: come era facile prevedere, la Cina è rapidamente passata dall’essere un mercato e un fornitore di manodopera a basso costo a un concorrente sugli stessi segmenti di mercato sui quali si è basata in passato la crescita tedesca.

Nulla di questo era imprevedibile, e il rifiuto delle classi dirigenti tedesche di prepararsi è stato ed è tuttora incosciente; il probabile prossimo cancelliere, Merz, ha a più riprese insistito sul fatto che le esportazioni rimangono lo strumento principale per far ripartire la crescita.

L’esempio dell’auto

Il settore automobilistico è paradigmatico della miopia che accompagnava i successi passati e dell’incapacità attuale di proiettarsi nel futuro. In un capitolo del recente European Public Investment Outlook da me curato con Floriana Cerniglia, Dario Guarascio e Annamaria Simonazzi notano come il successo delle marche tedesche negli anni scorsi fosse il risultato della delocalizzazione di fasi della produzione nei paesi dell’est e dell’apertura di fabbriche in Cina per sfruttare i bassi costi di produzione e servire i mercati asiatici in espansione.

Con l’arrivo dell’elettrico il settore si è trasformato, da “oligopolio sonnacchioso a scavezzacollo”, cogliendo i grandi marchi europei impreparati. Con colossali investimenti, pubblici e privati, su tutta la catena dal valore (dalle materie prime fino al prodotto finito) i produttori cinesi hanno creato nuovi prodotti a basso costo e all’avanguardia.

Oltre a non ricevere adeguato sostegno da un’Unione europea ancora molto restia ad impegnarsi in una seria politica commerciale e industriale, i produttori tedeschi (ed europei) non hanno investito a sufficienza e si sono invece limitati a riadattare il loro modello produttivo, aggrappandosi alle rendite di posizione. Il risultato è una crescente quota di mercato dei produttori cinesi sui mercati mondiali ed europei.

Oggi, il ritardo accumulato rende molto più difficile adottare contromisure. Ad esempio, i dazi europei sulle vetture cinesi nuoceranno soprattutto i produttori tedeschi: nel 2018 la Volkswagen ha prodotto meno vetture in Germania che in Cina, dove ha realizzato il 50 per cento dei suoi profitti.

Insomma, la Germania non attraversa una crisi passeggera. È il suo modello economico, che ha prosperato in una fase storica peculiare, che oggi è completamente superato. Nessuno dei partiti che oggi si contendono il voto degli elettori sembra esserne pienamente consapevole.

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