Quella del 2023 è una festa dell’Europa in bilico, e non solo perché si colloca nel mezzo, tra la conferenza sul futuro dell’anno scorso, e le elezioni europee di quello venturo. È proprio l’impianto europeo, la sua cifra politica, a essere in una fase di passaggio che deve metterci in allerta.

Le riforme per ridurre il deficit democratico e far avanzare l’integrazione politica europea sono state boicottate e poi affossate. In parallelo, l’apparato Ue conquista nuovi ambiti a colpi di procedure di urgenza che scavalcano gli eletti, e il nuovo asse che va dalla Polonia di Mateusz Morawiecki a Giorgia Meloni punta a disintegrare quel poco di unità politica conquistata dall’Ue.

Nel contesto di un’Europa che vira a destra, lo scenario che europeisti e progressisti devono fronteggiare è quello di un’Ue più espansa, ma meno democratica e meno integrata.

La riforma che non c’è

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Quando la conferenza sul futuro dell’Europa – simulacro di partecipazione durato un anno – si è conclusa, un tentativo di promuovere una riforma dei trattati c’è stato. Ci ha pensato l’Europarlamento, unica istituzione eletta direttamente dagli europei per gli europei: già la scorsa primavera ha fatto avere al Consiglio una richiesta di convenzione, preludio a una riforma dei trattati.

Sarebbe bastata una maggioranza di governi, per dare il via. Ma la risoluzione degli eurodeputati è stata da subito schivata: non c’era volontà politica. Anzitutto, non c’era a destra, coi popolari convinti a fatica, e le altre destre – meloniane e sovraniste – contrarie anche solo all’idea.

E poi, non c’è stata volontà politica da parte di quei governi che molto spesso anche da soli sanno e vogliono fare la differenza, ma che sull’integrazione politica europea hanno scelto di non investire il loro peso.

Olaf Scholz, la cui coalizione ibridata coi verdi aveva fatto promesse europeiste, lo stesso cancelliere che per averla vinta ha fatto spesso saltare i tavoli in Ue, su questo dossier si è limitato a ventilare il superamento dell’unanimità, per via pragmatica. Emmanuel Macron, che per sbloccare gli aiuti di stato ha saputo riannodare con Berlino e riorientare l’intera Ue dove gli interessava, dopo aver lanciato la conferenza sul futuro, l’ha lasciata cadere.

Insomma, la scorsa primavera il Consiglio – i governi – ha ignorato la richiesta di convenzione. E allora gli eurodeputati l’hanno dettagliata meglio. Ma poi ancora, i governi hanno nicchiato. Ora la commissione Affari costituzionali del Parlamento Ue è alle prese con l’ennesimo rapporto da consegnare, sperando che il Consiglio si decida a fornire la «leale cooperazione» alla quale in teoria i trattati lo obbligano.

Le spinte centrifughe

(I premier polacco e italiana. Foto governo polacco)

Neppure il socialista Pedro Sánchez, che da luglio avrà la presidenza di turno Ue, vede nell’integrazione una priorità.

Dopo il voto 2024, la presidenza tocca a Ungheria e Polonia, e il premier polacco – alleato di Meloni – ha come obiettivo semmai la disintegrazione: predica una Europa delle nazioni, frammentata dentro, ma ben salda agli Usa. Mentre l’Ue va avanti con l’allargamento, perde l’anima politica.

Certo, le competenze aumentano, ma in stile emergenziale. Nell’ambito dell’industria militare, ad esempio, cresce l’attivismo finanziario dell’Ue, ma non il ruolo di controllo degli eletti europei. Nell’acquisto comune dei vaccini, esperienza inedita, ci sono malgoverno e opacità stigmatizzati da ombudsman e Corte dei conti Ue, con la procura che indaga. Con l’ampliarsi in stile emergenziale delle prerogative si allarga pure il gap democratico.

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