L’Unione europea è pronta a rafforzare i suoi meccanismi di protezione, seguendo le indicazioni della Commissione, secondo cui la Cina non è più solo un partner, ma anche un “rivale sistemico”, una minaccia per la sicurezza delle nostre società ed economie.

A schiacciare sull’acceleratore del “de-risking” – ovvero la riduzione di legami percepiti come pericolosi – sono sopraggiunte nelle ultime settimane la comunicazione congiunta (della Commissione europea e dell’alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza) su una strategia di sicurezza economica europea, e la strategia sulla Cina varata da Berlino.

Il documento

Il documento che la presidente Ursula von der Leyen ha sottoposto agli altri organismi comunitari, pubblicato il 20 giugno scorso, presuppone che «la nostra sicurezza è profondamente intrecciata con la capacità di renderci più resilienti e ridurre i rischi derivanti da legami economici che nei decenni passati consideravamo benigni».

L’approvvigionamento di prodotti chiave che si è interrotto durante la pandemia di Covid-19, il boicottaggio di brand occidentali a fini politici e l’invasione russa dell’Ucraina sono secondo la Commissione sintomi di una nuova realtà geopolitica che presenta molteplici minacce: per le catene di fornitura (incluse quelle energetiche); di attacchi fisici e cyber alle infrastrutture critiche; di spionaggio tecnologico; di “coercizione economica”.

Rischi che «si evolvono rapidamente e si fondono con le preoccupazioni per la sicurezza nazionale». Uno degli aspetti più controversi della “comunicazione” in vista di una strategia comune –da coordinare con i paesi del G7 – sono i controlli proposti sul commercio strategico e sugli investimenti in uscita per «permetterci di proteggere i nostri interessi essenziali di sicurezza».

Protezionismo?

Misure che andrebbero ad aggiungersi alla Foreign Direct Investment Screening Regulation grazie alla quale, dall’ottobre 2020, sono stati esaminati un migliaio di investimenti negli stati membri per proteggerne la sicurezza e l’ordine pubblico. 

Chiaramente un simile piano d’azione – che ha tra gli obiettivi principali quelli di negare l’accesso alla Cina a determinate tecnologie e ridurre la dipendenza dell’Ue dalla Cina – presta il fianco alle critiche dei paesi membri più filo-cinesi (come l’Ungheria) e di Pechino, che lo ha tacciato di protezionismo.

Per questo Von der Leyen ha assicurato che i suoi princìpi guida saranno la “proporzionalità”, «per garantire che i nostri strumenti siano in linea con il livello di rischio e limitare eventuali effetti di ricaduta negativi non intenzionali sull’economia europea e globale» e la “precisione”, «per definire esattamente quali beni, settori o industrie principali sono presi di mira e garantire che le misure rispondano ai rischi stessi».

L’architetto della strategia è il quarantunenne Bjoern Seibert, capo di gabinetto di von der Leyen, vero e proprio “ufficiale di collegamento” tra la commissione europea e il governo statunitense, molto vicino al consigliere per la sicurezza nazionale Usa Jake Sullivan.

Seibert – che ha svolto un ruolo fondamentale per l’approvazione del primo pacchetto di sanzioni contro la Russia – per sei anni è stato un alto funzionario del ministero della difesa tedesco presieduto da von der Leyen. Ad Harvard ha insegnato “Security studies”.

La strategia tedesca

AP

Pubblicata poco dopo la “comunicazione” di Bruxelles, la strategia tedesca sulla Cina viene presentata come «parte della politica comune dell’Ue nei confronti della Cina».

Il principale partner commerciale della Cina all’interno dell’Ue, il paese con cui Pechino identifica la stessa Unione, invoca anch’esso il “de-risking”, perché «la Cina è cambiata. A seguito di questo e delle decisioni politiche della Cina, dobbiamo cambiare il nostro approccio alla Cina».

Il premier Li Qiang ha replicato che «il principale rischio per la Cina e la Germania è l’incapacità di cooperare e la principale minaccia alla loro sicurezza è la mancanza di sviluppo».

Dalla riapertura del paese alla fine del 2022, l’amministrazione di Xi ha condotto un imponente sforzo diplomatico nel tentativo di allontanare Bruxelles da Washington, ma ora anche le politiche europee sembrano virare in direzione di un contenimento tecnologico della Cina e del “de-risking”.

Un cambio di paradigma

In tanti hanno sottolineato che le 64 pagine pubblicate il 13 luglio scorso, al termine di un lungo e faticoso dibattito, dall’esecutivo (socialdemocratici, verdi, liberali) guidato da Olaf Scholz non prevedono l’adozione di alcuna misura concreta.

E tuttavia è evidente che, così come la “comunicazione” della Commissione, che ha poco tempo per tradursi in atti concreti (il mandato di von der Leyen scadrà con le elezioni europee del 6-9 giugno 2024), anche la strategia tedesca ufficializza un cambiamento del quale per gli attuali e i prossimi decisori sarà difficile non tener conto.

Secondo il professor Markus Taube, le relazioni economiche sino-europee sono mutate radicalmente rispetto al 1998, quando iniziarono i vertici annuali Ue-Cina, e si muovono oggi «a metà tra le esigenze del mondo degli affari e il controllo politico».

Gli interessi europei in Cina restano enormi. La seconda economia del pianeta è uno dei principali poli per l’innovazione (con gli Usa e l’Unione europea), un posto dove i capitali stranieri vogliono essere presenti.

Nel 2022 gli investimenti dell’Ue in Cina sono aumentati del 92,2 per cento rispetto all’anno precedente. Tuttavia, secondo l’economista tedesco, una serie di fattori stanno modificando la natura dei rapporti tra Ue e Cina: una generale perdita di fiducia derivante da fenomeni come la gestione dell’epidemia di Covid-19, la questione taiwanese e la quasi-alleanza con la Russia; il timore per l’avanzata tecnologica di una Cina autoritaria; e quella che Taube definisce «una nuova percezione di esposizione a rischi eccessivi» a causa della dipendenza dalla Cina per materie prime “critiche” utilizzate in tecnologie (come la robotica, i droni e altre) e settori (come la mobilità elettrica e le rinnovabili) chiave.

Il risultato di tutto ciò è, secondo il direttore dell’istituto In-East dell’Università di Duisburg-Essen, che «i circoli politici avvertono sempre più la necessità di contenere gli effetti negativi delle attività economiche con la Cina. La libertà decisionale delle compagnie viene sempre più limitata, attraverso interventi discrezionali nelle mosse e nelle strategie di singole aziende e di settori economici, mediante nuove leggi e regolamenti, barriere amministrative, rifocalizzazione dei regimi di promozione delle imprese, divieti, sanzioni, eccetera».

Meloni e la via della Seta

Dopo la visita di stato di Emmanuel Macron (5-8 aprile 2023), la Francia che ha siglato una dichiarazione in 51 punti per espandere la cooperazione con Pechino è in questo momento tra i grandi paesi dell’Ue quello che guarda con maggiore “simpatia” alla Cina.

Tanto che a Pechino si aspettano che lo stesso presidente ritorni nella capitale cinese (a capo di una già confermata delegazione di alto profilo) per il forum in occasione del decimo anniversario della nuova via della Seta, che si svolgerà in ottobre.

Eppure domenica scorsa a Pechino il suo ministro dell’economia ha parlato di “de-risking”. «È una parola che significa più sovranità, più indipendenza per affrontare il rischio di una nuova crisi che potrebbe interrompere il buon funzionamento del commercio e degli scambi», ha minimizzato Bruno Le Maire incontrando il vice premier He Lifeng.

Discorso diverso per il governo Meloni, che sta cercando il modo più indolore possibile per uscire ufficialmente dal memorandum d’intesa sulla nuova via della Seta siglato nel 2019 dal Conte I, in scadenza a fine anno.

La “coercizione economica” della Cina si abbatterà sull’export italiano (il 10 per cento del quale finisce proprio in Cina), verranno boicottati brand nostrani? Improbabile, in una fase in cui a Pechino, punendo un paese che considera sempre meno rilevante, non farebbe altro che fomentare la strategia dell’Ue sul “de-risking”.

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