Giorgia Meloni non utilizzerà il suo canale privilegiato con Donald Trump nell’interesse del progetto europeo, ma esclusivamente nel proprio, e i due interessi non coincidono.

La strategia della premier è quella di proporsi come ponte tra Washington – era lei l’unica leader di governo europea presente all’inaugurazione – e una Bruxelles più spaesata che mai, ancora in cerca di interlocutori nella nuova amministrazione. Pare che la Commissione europea stia tuttora cercando di capire a chi rivolgersi, ed è certo (perché lo ha detto la stessa portavoce di Ursula von der Leyen) che non vi siano ancora incontri in agenda ma «tentativi» di stabilirne il prima possibile. Non stupisce allora che anche prima della cerimonia inaugurale, così come prima del viaggio della premier a Mar-a-Lago, von der Leyen non si perda per nulla al mondo (non lo aveva fatto neppure dall’ospedale) la telefonata con Meloni.

La premier italiana si atteggia da pontiera ed è una strategia già vista, che le ha portato fortuna. Questo lunedì si è detta «impegnata nel consolidare il dialogo tra Usa ed Europa», e da tempo «dialogo con tutti» è il suo slogan: lo aveva usato per sfondare il cordone sanitario e ingraziarsi i popolari europei, presentandosi come il ponte tra la destra estrema più impresentabile e un centro di potere tutto concentrato sull’urgenza di non declinare. Allora come oggi, la leader nostrana si è rivelata la testa di ponte di una estrema destra europea in cerca di normalizzazione.

Dopo l’apertura di Manfred Weber, leader del Ppe, a considerare FdI come forza di governo, si sono moltiplicate a livello nazionale – Svezia, Finlandia, Olanda, Austria, e sottilmente anche la Francia – le aperture dei cosiddetti centristi alle estreme destre postfasciste, postnaziste, xenofobe e reazionarie. Anche stavolta, come iniziano a osservare pure da Parigi (ne scrive Le Monde), Meloni più che un ponte si rivelerà una testa di ponte. E questo può forse combaciare col pragmatismo a visione corta di von der Leyen, che non ha mai investito sul rilancio di una democrazia europeista (ma semmai l’ha compromessa), e che ha fatto rumore nelle scorse settimane col suo silenzio e la condiscendenza verso il duo Musk-Trump. Sicuramente torna utile alla nuova amministrazione Usa, che punta non soltanto a interloquire con un’Europa il più possibile frammentata (come già fece Trump I), ma persino a sgretolarla al suo interno (si vedano gli inni di Musk all’estrema destra tedesca o le sue incitazioni a rovesciare il governo laburista britannico).

Giorgia Meloni lavora già con Donald Trump e Javier Milei alla internazionale conservatrice – l’unica vera ragione per cui ha lasciato che Mateusz Morawiecki prendesse la bandierina della presidenza del partito conservatore europeo è che la premier si concentra ora sul livello globale – e, data la sua convinzione (mai del tutto mascherata) che sia meglio un’Unione europea «che faccia meno», aspettarsi che utilizzi i suoi canali per una revanche europeista andrebbe contro ogni evidenza. Neppure gli Olaf Scholz ed Emmanuel Macron dei tempi migliori, del resto, l’hanno mai davvero tentata: la forza del momento di Meloni è soprattutto il rovescio della debolezza del momento degli altri, a cominciare da Germania e Francia.

La corsa all’oro

Da cristianodemocratico filoatlantico qual è, c’è da aspettarsi che – se come è probabile diventerà il nuovo cancelliere tedesco – Friedrich Merz cercherà una interlocuzione con Trump. A dire il vero lo sta già facendo: a 2025 appena iniziato ha già invocato «un’agenda positiva con gli Usa» e – nella pratica – una «nuova iniziativa eurostatunitense» (un nuovo accordo) «per il libero scambio». Ha detto anche la ragione: «Prevenire una pericolosa spirale tariffaria». Ed è questo uno dei crucci anzitutto del comparto produttivo tedesco (al quale anche il nostro è connesso) e in generale dell’establishment europeo: l’incubo dei dazi.

All’inaugurazione di Trump era presente Tino Chrupalla di Alternative für Deutschland, non certo Merz; e poi Éric Zemmour, emarginato persino da Marine Le Pen, Santiago Abascal di Vox, la “patriota” (orbaniana in Ue) Kinga Gál, Nigel Farage, Marion Maréchal… Non solo Trump è abituato al divide et impera, ma punta – come ha già dimostrato Musk – a dare un megafono alle formazioni che non vogliono certo compattare o fortificare, ma semmai disgregare un’Europa unita. La Commissione sta evitando in ogni modo lo scontro, mentre molti leader partono come in una corsa all’oro, per ingraziarsi cioè il nuovo-vecchio presidente; Francia e Polonia puntano ad esempio sulla difesa, tema nel dna dei rispettivi governi e inteso come carota da lanciare a Trump nel momento in cui spingerà sul disimpegno militare Usa e toccherà agli europei farsi carico di spese e dossier Ucraina. L’altra carota sembra essere l’attitudine “laissez faire” di von der Leyen verso le incursioni tecnologiche muskiane (che sia la messa a rischio delle regole sul digitale o l’ipotesi che l’Italia preferisca un Musk sùbito che le comuni imprese europee domani).

Certo, Meloni guida uno dei paesi fondatori e gran manifattura dell’Unione: pure Trump è abbastanza realista da cogliere che la premier sia un canale più credibile rispetto a Viktor Orbán, primo a scommettere sul tycoon (ma perché aveva poco da perdere). Tuttavia non esistono al momento evidenze che portino a credere che in un mondo di leader europei infragiliti, che per prima cosa tentano la via dolce della carota, sia proprio la trumpiana di un tempo, Meloni, a usare il bastone. Anche perché si è visto come è andata, la prima volta che ha usato la strategia del ponte: ha usato il potere negoziale acquisito per opere di propaganda (migranti e dintorni) e per interessi immediati (il via libera al Pnrr), mentre poco ha potuto (e voluto) su aiuti di stato e riforma del patto di stabilità, davvero cruciali.

Magari l’interlocuzione privilegiata con gli Usa porterà a Meloni un telefono surriscaldato di richieste altrui e faccende varie, ma non restituirà a noi il miraggio di un’Europa più forte.

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