Al suo insediamento, la presidente Ursula von der Leyen aveva prospettato una Commissione europea “geopolitica”, capace cioè di affermare ruolo e interessi dell’Unione europea nel mondo. La postura sarebbe stata sempre multilaterale, ma la nuova Commissione sarebbe stata anche pronta ad agire con risolutezza quando necessario. A un anno e mezzo da quel discorso, qualcosa sembra essere andato storto. Sia nella reazione alla pandemia che nella proiezione internazionale, la Commissione di von der Leyen si sta dimostrando al di sotto delle sue ambizioni.

Le cause sono in parte imputabili all’elemento personale: non sempre lei e il suo team si sono rivelati all’altezza. Ad esempio, questa settimana von der Leyen ha rifiutato l’invito del presidente Volodymyr Zelensky per il trentesimo anniversario dell’indipendenza dell’Ucraina, uno dei principali partner europei a est e baluardo per frenare le mire espansionistiche della Russia, e per di più lo ha snobbato con una lettera firmata dal suo capo di gabinetto. Ma c’è anche un problema strutturale. L’eccessiva burocratizzazione della Commissione mal si concilia con situazioni che richiedono tempestività e dinamismo, come dimostrato dalla gestione dell’approvvigionamento dei vaccini.

La Commissione è accusata di aver agito lentamente nella conclusione dei contratti con le case farmaceutiche per assicurare vaccini a tutti gli stati membri a prezzi calmierati, e di aver messo a rischio la campagna vaccinale non diversificando abbastanza e non comunicando a sufficienza con i cittadini. Questo ha causato ritardi, stop e ripartenze, mentre i paesi membri hanno agito in maniera non sempre coordinata. Tutto ciò evidenzia anche, e forse soprattutto, un problema sistemico. Sulle questioni legate alla salute dei cittadini, così come sulla politica estera e di sicurezza, l’istanza di decisione politica sono gli stati membri, non la Commissione: e il coinvolgimento di quest’ultima, per di più in situazioni di emergenza, porta inevitabilmente a disfunzioni.

Come se ne esce?

Le problematiche legate alla persona della presidente sono, ovviamente, di natura contingente e transitoria. Quelle strutturali derivano dalla cultura del lavoro nella Commissione e richiederebbero un impegno riformatore dei vertici della Commissione stessa, su spinta degli stati membri. La questione sistemica, che attiene al corretto equilibrio tra la dimensione statuale e quella comunitaria nonché al funzionamento di quest’ultima, è invece molto più intimamente politica, e di conseguenza di diretto interesse per i cittadini.

Si tratta di un tema molto delicato e complesso, che però è diventato ineludibile, date le sfide che l’Unione si trova ad affrontare. Occorre trasformare la Commissione in un vero esecutivo europeo, dotandola di poteri adeguati per garantire la gestione e l’attuazione di politiche efficaci in settori quali la salute e la difesa. Questo implica in primo luogo un trasferimento a livello sovranazionale di alcune delle competenze a oggi attribuite agli esecutivi nazionali, che richiede una non facile modifica dei trattati. Ma serve anche, parallelamente, un perfezionamento del metodo comunitario. Per farlo, un primo tassello sarebbe conferire maggiore legittimità democratica alla Commissione.

Uno strumento possibile è quello dello Spitzenkandidat, che prevede che il presidente della Commissione sia il candidato della forza politica più votata dai cittadini europei. Introdotto nel 2014, questo meccanismo è stato ignorato nell’elezione di Ursula von der Leyen, che non era stata proposta come candidata da nessuna forza politica. Von der Leyen è stata invece nominata come soluzione di compromesso con il sostegno di un’ampia maggioranza al parlamento europeo, la cosiddetta maggioranza Ursula, composta da socialdemocratici e popolari, e anche da un pezzo degli euroscettici più moderati. Questo ha rafforzato le dinamiche consociative all’interno dell’assemblea parlamentare e reso politicamente impraticabile una mozione di censura nei confronti della Commissione, processo già peraltro estremamente complesso dal punto di vista istituzionale.

Occorrerebbe poi rafforzare la dimensione sovranazionale attraverso la riduzione dei membri del collegio dei commissari, come previsto dai trattati, superando così l’attuale composizione che prevede un commissario per ogni stato membro. Infine, bisognerebbe introdurre liste transnazionali nelle elezioni europee, svincolando le campagne elettorali dalle dinamiche puramente nazionali. Queste misure andrebbero associate all’espansione del campo di applicazione della maggioranza qualificata nel Consiglio dell’Ue, per evitare che importanti decisioni e azioni europee vengano bloccate dai veti incrociati delle capitali, sottraendole alla regola del consenso a 27.

La resistenza dei membri

Alcune di queste proposte sono già state avanzate per l’agenda della prossima Conferenza sul futuro dell’Europa, che partirà il prossimo 9 maggio con l’obiettivo di raccogliere le preferenze dei cittadini sull’Unione. Tuttavia, esse hanno incontrato la resistenza degli stati membri riuniti nel Consiglio dell’Ue, poco propensi ad avallare l’ipotesi di una modifica dei trattati. Le forze politiche europeiste e progressiste dovrebbero trovare il modo per superare questo blocco e sfruttare così questa importante occasione per rilanciare il progetto europeo, rendendolo più credibile agli occhi dell’opinione pubblica ma anche dei suoi partner e dei suoi rivali internazionali.

 

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