Durante l’assedio della capitale bosniaca, nel mezzo della guerra dei Balcani, molti stranieri avrebbero versato somme elevate per poter essere accompagnati sulle colline vicine alla città e sparare ai cittadini. La storia non è nuova, ma ora un esposto presentato dallo scrittore Ezio Gavazzeni alla Procura di Milano ha condotto all’apertura di un’indagine per omicidio plurimo aggravato dai motivi abietti e dalla crudeltà. Sarebbero coinvolti anche diversi italiani
Sui safari umani di Sarajevo durante la guerra nei Balcani in cui sarebbero coinvolti anche diversi italiani, la voglia di evadere dalla noia quotidiana e la sicurezza di farla franca potrebbero aver giocato un ruolo. La considerazione emerge dalla pila di documenti che lo scrittore Ezio Gavazzeni ha consegnato alla Procura di Milano, in un esposto che ha portato all’apertura dell’inchiesta per omicidio plurimo aggravato dai motivi abietti e dalla crudeltà.
Tra i fogli presentati, anche una lettera firmata da E.S., un ex militare dell’intelligence bosniaca che, avendo ascoltato i resoconti di un prigioniero serbo catturato all’epoca, si complimentava per la perfetta descrizione del cecchino straniero. «Un cacciatore appassionato che ha già provato tutti i tipi di safari classici legali e poi per il bisogno di adrenalina cerca anche una testa umana come trofeo; una persona che ama le armi ed è allo stesso tempo un tipo psicopatico; un ex soldato che non riesce a fermarsi dopo essere stato su alcuni campi di battaglia. In ogni caso, sono tutti appartenenti alla cerchia di persone ricche e probabilmente influenti nelle loro comunità. Hanno le risorse legali per proteggersi da un’eventuale indagine, e anche l’influenza politica per ostacolarla. Il livello di rischio che l’operazione venga scoperta e che gli attori vengano perseguiti – concludeva E.S. – è ridotto al minimo da una buona organizzazione». Forse non così perfetta, visto che a trent’anni di distanza qualcosa sembra muoversi.
Sparare a pagamento
A ripercorrerla è Repubblica partendo dell’esposto che Gavazzeni, in collaborazione con l’avvocato Nicola Brigida e l’ex giudice e avvocato Guido Salvini, ha presentato al pm Alessandro Gobbis per far luce sulla vicenda che si è consumata tra il 1993 e il 1995. L’obiettivo è rintracciare almeno gli italiani che si sarebbero macchiati di crimini efferati e spregiudicati grazie alle ricostruzioni dei vari testimoni, tra cui la fonte bosniaca di Gavazzeni.
Si sa che queste persone erano almeno cinque, erano vicine all’estrema destra, andavano regolarmente a caccia e avevano un amore per le armi che va al di là della semplice passione. I “turisti della guerra” o “cecchini del weekend” erano disposti a pagare l’equivalente di 80.000-100.000 euro pur di prendere parte alla spedizione, che consisteva nello sparare a civili inermi. Il costo saliva se i bersagli erano dei bambini, come se ci fosse un prezzario delle vittime. Ma nessuno sembra essersi lamentato di dover sborsare più soldi. Atterravano a Belgrado con la compagnia serba Aviogenex, poi venivano guidati in Bosnia sulle colline attorno a Sarajevo. E da lì sparavano.
A raccontarlo è proprio E.S., che alla fine del 1993 aveva contattato il Servizio per le informazioni e la sicurezza militare (Sismi, oggi Aisi) per segnalare la presenza di alcuni italiani tra i tiratori a pagamento. I servizi italiani sapevano quindi tutto, o quasi, come risulta anche dalla risposta che avevano dato al tempo: «Abbiamo scoperto che il Safari parte da Trieste. L’abbiamo interrotto e il Safari non avrà più luogo».
Anche dai resoconti offerti a Gavazzeni sappiamo che partivano da Milano, Torino, Trieste, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, forse confondendosi in qualche convoglio umanitario che trasportava aiuti. Avevano tra i quaranta e i cinquant’anni, pertanto qualcuno dovrebbe ancora essere in vita, e uno di questi – il milanese – sarebbe stato un proprietario di una clinica privata specializzata in chirurgia estetica. Ma il numero è al ribasso, per cui gli inquirenti si aspettano che la lista dei responsabili sia più lunga. Uomini, donne, bambini: sparavano a chiunque passasse a tiro, per mero divertimento.
Compreso un vigile del fuoco che, già durante il processo all’ex presidente serbo Slobodan Milošević, raccontava con sicurezza della presenza di stranieri nell’assedio della capitale bosniaca: «Sono addestrato e so riconoscere quando un ragazzo senza famigliarità con una zona viene condotto quasi per mano in un’area da chi la conosce bene», raccontava ai giudici dell’Aja.
Il desiderio di verità
Tutto questo rappresenta una conferma di quanto è stato narrato nel corso degli anni. Di questa storia se ne è discusso molto. Come ad esempio nel libro “I bastardi di Sarajevo”, pubblicato nel 2014 dal giornalista e scrittore Luca Leone, co-fondatore della casa editrice Infinito Edizioni, la stessa che ha portato il volume sul mercato. O nel documentario “Sarajevo Safari” del regista sloveno Miran Zupanič, presentato nel 2022 all’edizione di Al Jazeera Balkans Documentary Film Festival, dove era intervenuto anche Leone.
Proprio quel film ha riacceso l’interesse di Gavazzeni, come racconta lui stesso in un’intervista a Repubblica in cui definisce la vicenda come «la storia della vita». Al pubblico ministero ha portato «parecchie» prove, che però sono «solo un distillato di quanto si sa, una minima parte. Ho rotto le scatole a mezzo mondo, sia fonti bosniache sia italiane. I serbi no, non accettano, la considerano una leggenda metropolitana, una vulgata dell’Occidente».
Anche l’ex sindaca di Sarajevo, Benjamina Karić, si dice pronta a fare la sua parte per arrivare alla verità e consegnare i responsabili alla giustizia. Così da «scoperchiare una parte della società che nasconde la sua verità sotto al tappeto», aggiunge Gavazzeni. «Parliamo di gente facoltosa, con una reputazione, imprenditori, che durante l’assedio pagava per poter ammazzare civili inermi. Partiva da Trieste per la caccia all’uomo e poi tornava e continuava a fare la vita di sempre, rispettabile agli occhi di tutti. Gente con la passione per le armi, da sfogare, che preferisce andare a letto con il fucile, col denaro a disposizione e i contatti giusti di facilitatori tra l’Italia e la Serbia». In altre parole, conclude, «l’indifferenza del male: diventare Dio e restare impuniti». Forse non per sempre.
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