«Avete presente il film Don’t look up?», dice l’eurodeputata ungherese Katalin Cseh, oppositrice di Viktor Orbán. «C’è un asteroide che si dirige verso la terra, ma i leader politici non fanno che ripetere: “Valuteremo la cosa”. Questo è ciò che sta facendo la Commissione europea. L’asteroide è la crisi dello stato di diritto nell’Unione europea e Bruxelles che fa? Sta ad aspettare». Oggi la Corte di giustizia dell’Unione europea ha tolto a Ursula von der Leyen anche l’ultimo alibi che le era rimasto per ritardare l’applicazione di un meccanismo, che è legge da oltre un anno, che vincola l’erogazione dei fondi Ue al rispetto dello stato di diritto. I ricorsi di Polonia e Ungheria contro il meccanismo sono stati rispediti al mittente in modo netto dai giudici, che li hanno «respinti in toto».

Il nodo politico

A luglio 2020, quando i governi europei riuniti in Consiglio discutevano dell’indebitamento comune, l’idea di vincolare i soldi al rispetto degli standard democratici era rimasta un impegno vago: la Germania per prima, che coi paesi dell’est ha una interdipendenza asimmetrica perché lì hanno sede le sue manifatture automobilistiche, spingeva per il compromesso. L’approvazione del meccanismo è andata in porto, alla fine di quell’anno, solo grazie alla tenacia degli eurodeputati e di paesi come l’Olanda, che hanno fatto della rule of law una loro battaglia. Ma durante la presidenza di turno tedesca, quando Budapest e Varsavia hanno puntato i piedi con il bluff del veto sui fondi, Angela Merkel ha accordato loro di lasciare quel meccanismo sulla carta. L’accordo politico era quello di non attivarlo almeno fino alle elezioni ungheresi, che si terranno questo 3 aprile; e la possibilità che Varsavia e Budapest attivassero un ricorso alla Corte contestando la validità del meccanismo era già chiara in quel patto di fine 2020. Con una mossa che ha rappresentato un vero affronto istituzionale visto l’accordo siglato con l’Europarlamento, a dicembre il Consiglio europeo ha chiesto alla Commissione di adottare proprie linee guida sul meccanismo e di aspettare la sentenza della Corte di giustizia europea. I prodromi perché il meccanismo restasse inapplicato erano già in quel passaggio, e Ursula von der Leyen è stata al gioco. Mentre le violazioni della rule of law si moltiplicavano, con tanto di crisi Polexit, la presidente di Commissione ritardava l’applicazione del meccanismo, che è in vigore dal primo gennaio 2021. Solo l’azione legale avviata dagli eurodeputati, che la portano davanti alla Corte Ue per «inazione», ha per un attimo persuaso Bruxelles a intervenire – ma ancora una volta, «Merkel è intervenuta durante il suo ultimo Consiglio europeo, a ottobre, per dirle: non correre, dialoga ancora», dice l’eurodeputato verde tedesco Daniel Freund. «La notifica che stava per essere inviata a ottobre è rimasta nel cassetto».

La svolta dimezzata

Von der Leyen se ne è andata da Strasburgo prima che iniziasse il dibattito sulla sentenza della Corte, nonostante gli eurodeputati le avessero chiesto di esserci. Il verdetto è netto, e i contenuti erano prevedibili, visto anche il parere già espresso dall’avvocato generale. Tuttavia la Commissione dice di «dover studiare a fondo la sentenza»; prevede «settimane» ancora per sdoganare le linee guida sull’applicazione del meccanismo, che peraltro non sono richieste dal regolamento; poi «informeremo il Consiglio». Gli eurodeputati non ci stanno: «Basta, è tempo di agire, più aspettiamo più la crisi dello stato di diritto si estende. Se Bruxelles non agisce, Orbán e Morawiecki riusciranno come un’asteroide – dice Cseh – a distruggere l’Ue dall’interno».

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