Transizione digitale, perché è importante scegliere quali battaglie combattere

Giovedì al parlamento europeo una maggioranza inedita tra il partito popolare e la destra ha votato un pacchetto di misure che allentano i vincoli ambientali per le imprese, annacquando l’impegno dell’Unione europea per la transizione ecologica. C’è ovviamente un dato politico: è la prima volta che la destra, che in molte delle sue componenti è più o meno apertamente euroscettica, viene sdoganata. Ma c’è anche un altro aspetto preoccupante: nel dibattito europeo, la trasformazione strutturale dettata dalla transizione ecologica e digitale continua a essere vissuta come un costo e non come un’opportunità per una rivoluzione tecnologica e produttiva. Questo avviene mentre i nostri rivali, Stati Uniti e Cina, si sono lanciati in una guerra economica e commerciale per la supremazia proprio in questi settori. L’Europa, che come ricordava il Diario europeo il 5 ottobre scorso ha un problema cronico di produttività e di insufficienti investimenti pubblici e privati, non può permettersi di stare a guardare, e deve una volta per tutte decidere di giocare la partita investendo nei settori dai quali verranno nei prossimi anni i guadagni di produttività e la crescita. Ma i bisogni di investimento sono colossali, e l’Europa deve scegliere con cura in quali battaglie lanciarsi. In molti settori il ritardo è così ampio da rendere inutile ogni tentativo di recuperare terreno. Siccome si parla in molti casi di tecnologie per cui ci sono importanti economie di scala (vale a dire costi unitari che tendono a diminuire se la produzione aumenta), disperdere le risorse non sarebbe una strategia vincente; prendendo a prestito le parole del Rapporto Draghi, l’Ue dovrebbe investire nei settori dove «è in vantaggio o deve sviluppare capacità domestiche per motivi strategici». La nascita delle “quasi religioni”. Alla ricerca di Dio nell’era digitale Scegliere le priorità Diventa allora importante capire quali sono i settori e le tecnologie in cui l’Europa può ancora recuperare e quindi concentrare i propri sforzi di investimento. Per quel che riguarda la transizione digitale, ci aiuta in questo un’eccellente e dettagliata analisi pubblicata nei giorni scorsi da Le Grand Continent a firma di Alicia García-Herrero e Michal Krystyanczuk. I due ricercatori tracciano un quadro comparativo delle strategie industriali di Stati Uniti, Cina ed Europa nei tre settori oggi strategici nella lotta per l’egemonia economica e geopolitica: intelligenza artificiale, semiconduttori e tecnologie quantistiche. I dati sui brevetti radicali – cioè quelli che segnano vere discontinuità tecnologiche – mostrano che Stati Uniti e Cina dominano ormai la scena mondiale, mentre l’Europa rimane ai margini in quasi tutte le categorie. Gli Stati Uniti restano in testa nell’intelligenza artificiale e nel quantistico; la Cina, invece, ha compiuto progressi impressionanti nella manifattura avanzata e nella produzione di semiconduttori, dove è riuscita a ridurre in modo drastico il divario con gli Stati Uniti. L’Europa, pur avendo centri di ricerca d’eccellenza, non riesce a trasformare l’innovazione scientifica in capacità produttiva su larga scala. L’euro digitale è una risposta timida: il potere del dollaro non si ferma così Il modello americano Il modello di innovazione americano si fonda su grandi imprese tecnologiche private (come Microsoft, Amazon, IBM, Intel, Nvidia o Qualcomm) che, sostenute da mercati finanziari dinamici, integrano ricerca, sviluppo tecnico e commercializzazione. La forza del sistema statunitense è la sua capacità di concentrare competenze e risorse incorporando rapidamente le innovazioni nel processo produttivo, così monetizzandole rapidamente e innescando un circolo virtuoso di profitti e investimenti in nuova ricerca. Infine, il controllo all’interno dello stesso gruppo di tutte le tappe del processo innovativo lo rende più difficile da riprodurre per i concorrenti Tuttavia, secondo gli autori, questa concentrazione comporta anche un rischio di eccessiva dipendenza da pochi attori, con innovazioni radicali ma che non si diffondono al di là dei settori in cui sono prodotte. La concentrazione aumenta anche il rischio di bolle speculative, come mostrano proprio i giganti dell’Ia. Il Rapporto Draghi un anno dopo. L’Europa sempre in affanno Il modello cinese Altrettanto efficiente, ma radicalmente diverso, è il modello cinese, un ecosistema ibrido in cui lo stato detta le linee strategiche e guida dà la direzione dello sforzo di innovazione, ma lascia spazio a una pluralità di attori (imprese pubbliche e private, laboratori, università) che operano in rete. Programmi come “Made in China 2025” e il più recente “Little Giants”, che sostiene l’attività di ricerca e sviluppo di piccole startup innovanti, definiscono obiettivi di lungo periodo, selezionano i settori prioritari e canalizzano risorse pubbliche ingenti verso imprese nazionali considerate strategiche. Ne risulta un sistema più capillare di quello americano, che unisce l’interventismo statale alla concorrenza sfrenata tra imprese private. La Cina non domina ancora i settori più avanzati, ma la sua capacità di diffondere rapidamente le innovazioni su tutta l’economia le consente aumenti importanti e generalizzati di produttività. Altro che svolta sulle reti digitali, la lobby Big tech azzoppa il nuovo Digital Networks act E l’Europa? L’Europa, osservano gli autori, non dispone né della potenza di fuoco finanziaria delle Big Tech americane, né della coerenza strategica del modello cinese. La ricerca fondamentale (principalmente pubblica) è di qualità e la produzione di brevetti significativa; tuttavia, queste conoscenze si disperdono e sono incorporate a fatica nel sistema produttivo: lo sviluppo tecnico e la commercializzazione richiedono tempi lunghi. Anche la capacità di imitare e incorporare le innovazioni esterne è limitata: in media le imprese europee ci mettono 18-24 mesi per replicare un brevetto innovativo sviluppato altrove, contro i pochi mesi delle imprese statunitensi e cinesi. Infine, il coordinamento tra le politiche nazionali è minimo. Che fare, dunque? L’articolo del Grand Continent fa alcune proposte interessanti, come quella di creare delle ”zone di sperimentazione” (sandbox) europee, in cui le imprese possano testare lo sviluppo di tecnologie emergenti e le autorità adattare la regolamentazione, così da accelerare la transizione dalla ricerca di base al mercato. Gli autori invitano anche a usare la domanda pubblica come leva, imponendo che una quota dei grandi appalti europei in settori strategici, difesa, infrastrutture, sanità o energia, includa componenti tecnologiche sviluppate in Europa. Il coordinamento delle politiche nazionali potrebbe essere poi agevolato dalla creazione di un Osservatorio europeo delle tecnologie critiche. A queste raccomandazioni ci sentiamo di aggiungere quella di mantenere al centro dell’ecosistema europeo la ricerca pubblica. Lo sviluppo dei giganti del Big Tech negli Stati Uniti è certo un poderoso motore di progresso tecnico. Ma crea anche dei monopoli e delle rendite che, come mostrano i lavori recenti dei premi Nobel Daron Acemoglu e Simon Johnson, portano a concentrazione di potere economico e politico che alla lunga diviene insostenibile. La ricerca fondamentale è un bene pubblico che per quanto possibile deve essere lasciato a disposizione della collettività. Apple, Google, Meta e gli altri. Il lobbismo di Big Tech è sempre più aggressivo