Quando la pandemia è esplosa, gli intellettuali di tutto il mondo si sono chiesti se la crisi avrebbe portato a un radicale ripensamento del sistema. La storia di Airbnb, la piattaforma per affitti, può fornire una prima risposta. In questi giorni si scontrano due visioni differenti del futuro. La creatura della Silicon Valley cerca di adattarsi per uscire il più possibile indenne dallo shock della crisi. È la “resilienza”: resistere agli urti senza ridefinirsi nella sostanza. Sul fronte opposto, alcune grandi città d’Europa e la sinistra europea intendono sfruttare la fase di ripensamento – e l’imminente nuovo pacchetto europeo sui servizi digitali – per regolare la piattaforma. Per loro la priorità non è il business di big tech ma il diritto alla casa. Così, mentre Airbnb viene quotata in Borsa e il Nasdaq la presenta come «la pioniera dell’home sharing con un brillante futuro davanti», sui tavoli di Bruxelles arriva uno studio sui “fallimenti della piattaforma”. Più che un brillante futuro, questo dossier redatto da Murray Cox (fondatore di Inside Airbnb) e Kenneth Haar (ricercatore del Corporate Europe observatory) su commissione della sinistra all’Europarlamento denuncia molte ombre.

La condivisione dei danni

L’analisi considera i casi di Amsterdam, Barcellona, Berlino, New York, Parigi, Praga, San Francisco e Vienna. L’impatto della piattaforma è evidente. Chi prima affittava appartamenti a studenti o lavoratori ora trova più profittevole affittare per brevi periodi ai turisti, usando Airbnb, che permette di fare profitti senza sottostare alle regole del mercato immobiliare tradizionale. A Parigi, 25mila appartamenti sfuggono al mercato per andare sulle piattaforme. Visto che tante case finiscono su Airbnb, l’offerta di affitti a lungo termine si riduce. Risultato? L’impennata dei costi: a Barcellona gli affitti costano il 7 per cento in più; le proprietà immobiliari il 20. «Lo abbiamo visto anche in Italia», dice Fabio D’Alfonso, portavoce del comitato Pensare urbano, nato a Bologna proprio per rispondere all’emergenza abitativa. «Gli studenti che non trovano più affitti, gli affitti che lievitano». Il dossier sfata il mito della sharing economy: nelle 8 città, solo il 12,5 dei ricavi generati dalla piattaforma è “home sharing”, cioè la messa a disposizione di una stanza, o della casa per non più di un mese. Su Airbnb ci sono veri e propri affaristi dell’affitto. Fino al 90 per cento dei ricavi è business puro; ma sfugge alle regole. «Il punto – dicono gli autori dello studio – è che le città regolano l’affitto a uso commerciale per tutelare il diritto alla casa. Nel momento in cui gli affitti su Airbnb sono a fini commerciali, possono diventare illegali, così come i ricavi. A Parigi il 60 per cento di annunci su Airbnb è fuori regola, a New York l’85».

Sregolatezza europea

Le città provano a regolare Airbnb. Riuscirci è quasi impossibile. Il caso di Monaco è esemplare: il consiglio comunale decide che non si può affittare ai turisti per più di due mesi all’anno. Chiede ad Airbnb di fornire i nomi degli affittuari che oltrepassano il limite. Per tutta risposta, big tech porta la città in tribunale, e la corte le dà pure ragione. Come mai? La migliore alleata della Silicon Valley si sta rivelando la giurisdizione europea: finora è valsa la e-Commerce directive, concepita vent’anni fa, quando la “sharing economy” era lontana. Martin Schirdewan, europarlamentare e copresidente di The Left, dice che «all’epoca c’era un approccio liberale verso il digitale»; bisognava garantire la libera circolazione dei servizi nell’era di internet. «Perciò l’Ue ha lasciato spazio alle piattaforme, sperando si autoregolassero». Non sta andando così: «Alcune, con la posizione dominante, minacciano l’esercizio di diritti come quello alla casa». Il dossier serve a fare pressione sulla Commissione: il 15 presenta la proposta di Digital services act, il nuovo pacchetto sui servizi digitali. «Bisogna responsabilizzare le piattaforme, a cominciare dall’obbligo a fornire alle amministrazioni dati validi», dice Kenneth Haar, autore dello studio. «Con le regole attuali, le città devono battagliare per poter avere informazioni, e non ci riescono quasi mai. Barcellona è riuscita a strappare un accordo sui dati a Big Tech, che però le ha fornito dati aggregati pressocché inutili». Come mai l’Ue non interviene? «La pressione lobbistica di Airbnb a Bruxelles è fortissima: c’è una close working relationship, una “stretta collaborazione”». Su una cosa pare che i due fronti siano d’accordo: non sarà la pandemia a stravolgere il business della “falsa condivisione”. Nonostante il crollo iniziale dovuto a Covid-19, per cui nei primi nove mesi dell’anno Airbnb ha incassato 2,5 miliardi di dollari invece dei 3,7 dell’anno prima, ora dice di essere performante. Lo studio rileva che «anche se la pandemia ha ridotto l’attività degli affitti brevi, quelle case non sono tornate sul mercato degli affitti a lungo termine». Per cambiare le cose non basta una crisi, servono nuove regole.

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