Ma Donald Trump «presterà anche solo attenzione all’Europa?». E «rispetterà le istituzioni Ue?». A far schioccare queste domande dal palco del World Economic Forum è stato il presidente ucraino, intervenuto nello stesso giorno di Ursula von der Leyen.

Le domande che Volodymyr Zelensky pone pensando alle sorti dell’Ucraina sono più simili di quanto sembri a quelle che si pongono leader europei ed europarlamentari. Mentre i meloniani a Strasburgo cavalcano come surfisti l’onda trumpiana e già invocano «una nuova Europa dopo la nuova America» (parole di Carlo Fidanza), intanto i socialisti, ancora con le ossa rotte per gli spintoni del Ppe verso la destra estrema, tentano la riscossa. La capogruppo manda a dire a von der Leyen che «il silenzio iniziale è stato inaccettabile, l’inazione non è neutrale, ma complice; dove sono i mezzi contundenti?».

Mentre il vicepresidente Maroš Šefčovič rispondeva dei rapporti con gli Usa in Europarlamento, intanto la presidente della Commissione Ue articolava la prima vera risposta – dopo settimane di sostanziale afonia – dal palco di Davos.

Potere e commercio

Non le basta più offrirsi di comprare altro gas naturale liquefatto (esca lanciata a Trump già dopo la vittoria). Dazi e guerra commerciale sono in cima alla lista dei timori europei, e il posto in alto in classifica è dovuto all’alta probabilità: sfiora la certezza, al punto che tra gli imprenditori statunitensi che operano in Ue ben nove su dieci si aspettano che le relazioni commerciali tra Europa e Usa peggiorino.

Su questo von der Leyen pensa però di avere carte da giocare. Lo pensa anzitutto perché è in ambito commerciale che la Commissione gode di competenza esclusiva: Trump prediligerà i negoziati bilaterali dividendo (e imperando) un’Ue che già va in ordine sparso, ma per i trattati commerciali il Berlaymont è decisivo. E su questo von der Leyen qualche pensiero tattico deve averlo già fatto, dato che in fretta e furia ha voluto chiudere il tanto complicato e controverso dossier Mercosur (il trattato di libero scambio tra Ue e mercato dell’America latina), a costo di creare grane al presidente francese, di non farsi vedere all’inaugurazione di Notre-Dame e di prevedere «una riserva di un miliardo» a compensazione degli agricoltori (soldi che servono a imbonirsi i governi perplessi come il polacco e il nostro).

«Persino in fase di dura competizione, dobbiamo unire le forze: l’Europa continuerà a cercare cooperazioni non solo con gli amici di una vita, ma con qualunque paese col quale condividiamo interessi», ha detto von der Leyen da Davos. «Il nostro messaggio al mondo è semplice: Europe is open for business». L’Europa è pronta a fare affari, ad esempio «con l’India».

I trattati di libero scambio con paesi come il Messico servono a unire le forze tra le possibili vittime del trumpismo, ma il «messaggio al mondo» è anzitutto un messaggio agli Usa: un gentile invito a un pragmatismo morbido. Trump morbido non è, dunque da Davos von der Leyen – che con Biden era pronta a rompere con la Cina – ventila: «C’è la chance di approfondire i rapporti con la Cina».

Il nodo della difesa

L’altro argomento – che tornerà sul tavolo dei leader europei il 3 febbraio – è la difesa: qui le spinte di paesi come Francia e Polonia convergono con gli spintoni di Trump perché gli europei spendano di più. Dovranno anche, verosimilmente, farsi più carico della sicurezza dell’Ucraina. Perciò prima Macron, poi lo stesso Zelensky da Davos hanno segnalato che quantomeno l’Ue non dovrebbe farsi escludere dal tavolo delle trattative (cosa che peraltro già faceva Biden prima della guerra, come si vide a Ginevra a gennaio 2022).

Con tutti questi dossier duri, il timore espresso anche questo martedì dai progressisti in Europarlamento è che Bruxelles lasci correre di fronte agli attacchi di Big Tech alle regole e alla democrazia europee. Per la Commissione, Henna Virkkunen assicura il contrario; ma a cominciare dai tempi di reazione, è tutto da dimostrare.

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