Il 13 luglio del 2009 i giornali raccontavano che il comico Beppe Grillo aveva pagato 16 euro per ottenere la tessera del Partito democratico e correre alle primarie per scegliere il segretario. I vertici del Pd lo respinsero e gli restituirono i 16 euro.

Se fosse andata diversamente, magari i Cinque stelle oggi sarebbero una corrente del Pd (o forse non esisterebbe più il Pd, chissà). Di sicuro la storia di questi due partiti si intreccia fin dal primo istante e ora sembra arrivato il momento dei bilanci: il referendum sul taglio dei parlamentari ha dimostrato che le battaglie anti-casta hanno sedotto la maggioranza degli elettori, ma al contempo il risultato delle elezioni regionali certifica che i Cinque stelle non sono decisivi per fermare i candidati delle destre (nelle Marche, in Liguria, in Veneto…) e neppure sono credibili per il governo locale.

Alcuni nel Pd esultano per quello che pare il tramonto di una cultura ostile ai partiti e anche al parlamento, come ha confermato Grillo due giorni fa (“credo nella democrazia diretta, non nel parlamento”) con parole che hanno chiarito lo spirito del referendum: tagliare i parlamentari per indebolire l’istituzione, non per aumentarne l’efficienza. Altri guardano i numeri e sanno che la dissoluzione dei Cinque stelle può essere una effimera soddisfazione.

Se consideriamo i voti assoluti per la Camera, alle politiche del 2013 la somma tra Cinque Stelle e Pd è pari a 17,3 milioni di voti, divisi quasi a metà, con il Movimento avanti di 300mila. Alle europee del 2014 il Pd di Matteo Renzi ottiene il record del 40 per cento dei consensi, ma se rimaniamo ai voti dietro le percentuali la somma non cambia: 11,2 milioni al Pd, al Movimento 5,8. Sempre 17 milioni. Nel 2018 i rapporti di forza si ribaltano, alla Camera trionfano i Cinque stelle e crolla il Pd. La somma complessiva dei voti è sempre quasi 17 milioni, 10,7 al Movimento e 6,2 al Pd. Alle europee 2019 qualcosa cambia, la somma crolla a 10,5 milioni, 6 al Pd e 4,5 ai Cinque stelle, la Lega di Matteo Salvini sembra intercettare voti che prima erano rimasti nell’area larga progressista e populista.

Oggi però la Lega sovranista Matteo Salvini vacilla, niente vittorie di territorio, fuori dal governo, travolta dalle inchieste. Ci sarebbero le condizioni, insomma, per tornare alla formula del travaso: quei 17 milioni di voti che da quasi un decennio si dividono tra Pd e Cinque stelle, con pesi diversi a ogni elezione.

In cerca di proposte

Il problema è che i Cinque stelle hanno perso per strada molti temi caratterizzanti - dalla tutela dell’ambiente all’intransigenza penale al limite rigido ai mandati - senza averli sostituiti con altri obiettivi.

Il Pd ha una cultura di amministrazione maggiore, senza una proposta complessiva.

Nel decennio populista però, la contaminazione così evidente tra l’elettorato e così spesso negata dagli eletti ha prodotto le basi per collaborare. Se si osserva per esempio il campo del welfare, caratterizzante per entrambi i partiti, risulta evidente: il reddito di cittadinanza voluto dai Cinque stelle è l’evoluzione di quello di inclusione introdotto dal Pd (con il pungolo esterno sempre dei Cinque stelle), anche sul primo bilancio sono concordi. Le politiche attive per spingere i beneficiari del sussidio a lavorare si sono rivelate uno spreco di soldi (finanziate dal governo ma gestire dalle regioni), la parte di assistenza raggiunge molti poveri ma non tutti i bisognosi, in particolare penalizza stranieri e famiglie numerose.

Nel delicatissimo campo delle pensioni Pd e Cinque stelle stanno lavorando insieme per risolvere un problema ereditato dal governo Conte 1: a fine 2021 scade la controriforma voluta da Salvini (che a sua volta cambiava la riforma Fornero del 2011), o tutti tornano ad andare in pensione a 67 anni oppure bisogna inventarsi formule nuove.

I Cinque stelle devono accettare che lo strumento a disposizione per risolvere il problema lo ha inventato il Pd - l’anticipo pensionistico Ape sociale, che va esteso - e il Pd deve rassegnarsi a pagare un costo politico per gli errori del governo Conte 1. Salvini non aspetta altro che vedere i suoi avversari fare qualcosa che, inevitabilmente, assomiglierà a un aumento dell’età pensionabile.

Anche intorno ai due partiti il decennio populista ha generato aree di contaminazione, dove già esiste una sintesi di sensibilità che a livello politico manca. Due esempi: il Forum disuguaglianze e diversità animato da Fabrizio Barca che elabora proposte radicali come l’eredità universale (15mila euro a tutti i neomaggiorenni) e l’Asvis, l’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile, il cui portavoce è Enrico Giovannini, e che declina in indicatori e misure concrete gli obiettivi ambientali e di sostenibilità dell’Onu.

Il travaso di voti da un campo all’altro di questi anni ha prodotto un travaso di idee che è una base su cui i due partner di governo possono ragionare per decidere il destino della loro convivenza forzata.

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