«Ci vogliamo vive», è cosi che recita lo striscione di Non una di meno, che insieme ad altre associazioni femministe e transfemministe è tornata nelle piazze italiane per dire ancora una volta che l’aborto non si tocca. Il 28 settembre è la giornata internazionale per l’aborto sicuro, libero e gratuito. Un diritto che in Italia è garantito dalla legge 194 del 1978 ma che nella pratica non sempre è rispettato. Secondo i dati del ministero della Salute del 2020, l’obiezione di coscienza è praticata dal 60 per cento dei ginecologi al nord, dal 66 per cento al centro, dal 79 per cento al sud e sulle isole.

Non solo, lo studio “Mai dati” delle ricercatrici Chiara Lalli e Sonia Montegiove raccoglie dati aggiornati al 2021 riferiti alle varie strutture sanitarie e fotografa un panorama preoccupante. In 72 ospedali del nostro paese le donne che hanno deciso di interrompere una gravidanza si sono scontrate con una percentuale di obiezione, tra ginecologi, anestesisti e personale paramedico, che oscilla tra l’80 e il 100 per cento. In 11 regioni italiane poi almeno un ospedale non permette di fatto l’applicazione della 194 perché tutto il personale è obiettore. «Vogliamo quello che ci spetta, vogliamo diritti e garanzie. Vogliamo gli obiettori fuori dai consultori e ospedali pubblici. Vogliamo il diritto alla salute, al welfare e al reddito per l’autodeterminazione», scrivono le militanti di Nudm.

A replicare anche Isabella Borrelli, attivista transfemminista: «Il diritto all’aborto non va difeso, va applicato! Impedire la pratica abortiva negli ospedali non ferma gli aborti, ferma solo gli aborti in sicurezza».

La giornata di protesta è arrivata in un momento particolare per l’Italia: negli ultimi giorni si è riaperto il dibattito sul diritto all’aborto e sulle campagne pro vita portate avanti dalla destra soprattutto durante la campagna elettorale di Giorgia Meloni: «Non voglio cancellare l’interruzione di gravidanza», diceva, «nè la 194, ma applicarla in pieno, garantendo il diritto a non abortire».

Il voto in Liguria

Il 27 settembre, però, nel consiglio regionale ligure tre consiglieri di Fratelli d’Italia sono stati gli unici ad astenersi nella votazione di un ordine del giorno sul “diritto delle donne di poter scegliere l’interruzione volontaria di gravidanza”, mentre sei consiglieri tra centrodestra e centrosinistra erano fuori dall’aula al momento del voto. Il testo, presentato da Roberto Arboscello del Pd, stabilisce l’impegno della giunta presieduta da Giovanni Toti «a garantire alle donne che decidono di non portare a terminare una gravidanza in Liguria di effettuare questa scelta senza superare alcuna difficoltà nell’accesso alle strutture che effettuano l’interruzione». Non solo, il testo prevede anche di sostenere «nelle sedi più opportune la richiesta del Parlamento europeo di inserire il diritto all’aborto legale e sicuro nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea».

«Sono 9 le strutture sanitarie per l’interruzione di gravidanza attive in Liguria, garantiscono il pieno rispetto della legge 194», ha risposto il presidente della regione, Giovanni Toti. «Sono stati 2007 gli aborti in Liguria nel 2021. A livello regionale il personale sanitario è pienamente sufficiente ad assicurare il servizio: i medici obiettori sono 64 su 124, gli anestesisti obiettori sono 67 su 204».

Ungheria e Polonia

«È importante che ci sia questa mobilitazione», dice Laura Boldrini, da sempre in prima linea sui diritti delle donne e che ieri è scesa ancora una volta in piazza, «la 194 è la più minacciata da questa destra oscurantista, la cui leader parla del diritto di non abortire, come se qualcuno l’avesse mai messo in discussione».

E aggiunge: «In Italia quello che è invece messo in discussione è il diritto delle donne e delle ragazze ad abortire, visto che già in molte regioni governate dalla destra nei consultori non viene data la pillola RU486 e questo costringe le donne a cercare altrove l’interruzione di gravidanza. Non vorrei che questa affermazione poi si trasformi nella loro ottica in un obbligo a partorire che metterebbe in discussione l’autodeterminazione delle donne per la quale abbiamo lottato per molti decenni e questo non lo potremmo tollerare. Non vogliamo diventare l’Ungheria e neanche la Polonia. Se questi sono i riferimenti di questa destra italiana, dobbiamo essere molto vigili e capaci di reagire in tutte le sedi, nelle piazze, in Parlamento, ovunque questo diritto venga rimesso in discussione».

 

© Riproduzione riservata