Cosa hanno in comune il giornalista-imprenditore Mario Benotti, l’amico del cuore di Massimo D’Alema Roberto De Santis, il cognato di Attilio Fontana Andrea Dini, l’ex ministro dell’Agricoltura Saverio Romano e lo stampatore Vittorio Farina? Analizzando biografie, età e interessi, poco o nulla. Tranne il fatto che sono riusciti tutti e cinque, nello stesso periodo, a fare affari d’oro. Sfruttando la crisi del coronavirus e, soprattutto, le loro relazioni con la politica e le istituzioni. Rapporti privilegiati che gli hanno permesso eccezionali entrature con le regioni, con il dipartimento della Protezione civile e la struttura commissariale, cioè gli enti deputati a spendere miliardi per le forniture anti Covid.

Il gruppetto ha anche un altro comune denominatore: sono tutti indagati a vario titolo per traffico di influenze illecite e/o frode in pubblica fornitura. Le inchieste della procura di Roma sulle compravendite di mascherine che hanno trasformato piccoli imprenditori in neo-milionari, evidenziano non solo discutibili arricchimenti in tempi pandemici, ma il perenne ritorno di un sistema vischioso che riappare – con protagonisti diversi - ogni qualvolta si aprono stagioni emergenziali. E quando una crisi fa scattare procedure eccezionali nell’assegnazione degli appalti pubblici.

Gli amici degli amici

Come già accaduto dopo il terremoto dell’Aquila o nella crisi dei rifiuti di Napoli, anche stavolta circostanze straordinarie che provocano danni a molti si rivelano un’opportunità per pochissimi. Il Covid – ha differenza di quanto teorizzato da qualche osservatore all’inizio dell’epidemia - non è stato una livella, e l’accomunamento dei destini di ricchi e poveri si è rivelata presto una teoria bislacca. Al contrario, la sperequazione tra ceti e categorie, tra garantiti e precari è cresciuta a dismisura a livello locale e globale, e le disuguaglianze tra chi l’ha sfangata e chi è precipitato nel gorgo del disastro sanitario ed economico sono oggi più marcate.

Per qualche imprenditore, addirittura, il Sars-Cov-2 è stata come manna dal cielo. Non parliamo qui dei colossi dell’e-commerce o dei servizi online. Ma di uomini d’affari che – a dispetto di concorrenti privi di relazioni altolocate – possiedono gli agganci giusti per “imbucarsi” nella pubblica amministrazione, in modo da ottenere assegnazioni dirette senza gara, o in subordine ricche consulenze per attività di mediazione.

Al netto del rilievo penale delle vicende, ancora tutto da dimostrare, il metodo d’azione sembra sempre il medesimo: chi si muove seguendo percorsi tradizionali, coloro che non vogliono o non conoscono le scorciatoie del potere, in tempi difficili rischiano di restare indietro, e di essere travolti. Al contrario i campioni del capitalismo relazionale, gli amici degli amici, i raccomandati possono fare fortuna. Come insegna Diego Anemone, lo sconosciuto impresario a capo della cosiddetta “cricca”, che riuscì a fare affari milionari grazie alle entrature con allora potentissimo presidente del Consiglio dei lavori pubblici Angelo Balducci. O come Gianpaolo Tarantini, l’uomo che portava le escort nelle ville di Silvio Berlusconi, che sperava di entrare nelle grazie dell’allora premier per poi ottenere appalti da Finmeccanica o della Protezione civile.

Se ieri come oggi imprenditori e lobbisti sfruttano lo stato di emergenza (deliberato dal governo di turno per aggirare la mastodontica burocrazia di un paese paralizzato da cavilli e norme) e affinità elettive con il potente conosciuto in un dicastero per mettere le mani sulla torta senza che nessun altro sia nemmeno invitato al banchetto, le inchieste giudiziarie che provano a arginare il fenomeno si basano su assunti giuridici diversi rispetto al passato.

I processi su Guido Bertolaso (sempre assolto) e il resto della cricca si basavano infatti su ipotesi di corruzione (spesso prescritta) e associazione a delinquere. Oggi i magistrati che stanno indagando in Lombardia sul caso dei camici “donati” dal cognato di Attilio Fontana alla regione e quelli che a Roma lavorano sui vari filoni delle mascherine non hanno finora identificato comportamenti corruttivi. Il reato è stato sì ipotizzato, ma sembra – più che per convinzione investigativa - per ottenere il via libera alle intercettazioni telefoniche.

I pm puntano a scardinare il sistema con un armamentario giuridico più “leggero”. Basato in primis sul traffico di influenze, una fattispecie introdotta nel codice penale solo nel 2012. Un delitto che secondo la procura commette chiunque paga un ticket per avere un accesso privilegiato alla pubblica amministrazione. La teoria accusatorie è semplice: se in pandemia (o in altra situazione di crisi sistemica) qualcuno fallisce e qualcun altro diventa ricco, stare nell’una o nell’altra casella non può dipendere dal fatto che tu conosca o meno il commissario o il politico di turno. Tutti – sembra la logica della legge e dei magistrati - devono avere par condicio nell’accesso agli enti statali che erogano denaro per servizi e beni di ogni tipo.

La rete di Farina

In molti, invece, durante la pandemia hanno potuto imboccare corsie preferenziali vietate ai comuni mortali. Andiamo con ordine, partendo dall’ultimo scandalo scovato dai pm capitolini. Lo stampatore Farina e il suo socio in affari, l’editore croato Andelko Aleksic, sono finiti agli arresti domiciliari qualche giorno fa perché accusati di frode in publiche forniture e traffico di influenze illecite. Secondo l’accusa i due sarebbero riusciti a vendere alla Protezione civile del Lazio materiale sanitario per 22 milioni di euro grazie a rapporti privilegiati con gli uffici della regione, falsificando poi i certificati di conformità delle mascherine. Non solo: la coppia – attraverso società come la European Network e la Ent srl - avrebbe anche tentato un altro colpo con la struttura commissariale al tempo guidata da Domenico Arcuri, per piazzare 400mila mascherine destinate alle scuole italiane.

Ora, né Farina né l’imprenditore croato, specializzati in giornali e rotative, hanno mai commercializzato protezioni mediche. Né risultano aver operato nel settore: com’è possibile che siano riusciti a organizzare un deal di questa portata? Leggendo in controluce le carte dell’accusa, gli affari sono andati a segno grazie a un vantaggio competitivo. Basato sulle entrature nel sottobosco romano, all’ombra del quale da sempre si mescolano gli interessi dei procacciatori d’affari e dei pubblici ufficiali, quelli dei politici e dei loro referenti nelle strutture pubbliche che possono spendere da un giorno all’altro milioni senza gare e con affidamenti diretti.

Farina, ex socio del faccendiere Luigi Bisignani, vanta certamente una rete di tutto rispetto, che mette a disposizione di Aleksic. Gli atti giudiziari evidenziano per esempio legami bipartisan con Roberto De Santis e Saverio Romano, entrambi indagati per traffico di influenze, «per il tramite dei quali Farina riesce ad avere contatti con pubblici amministratori che in questo periodo si occupano delle forniture pubbliche». Tra loro ci sarebbe anche Domenico Arcuri, l’uomo che Giuseppe Conte ha messo a capo degli uffici che hanno gestito commesse e approvvigionamenti, e che è stato sostituito pochi giorni fa (per volontà del nuovo premier Mario Draghi) dal generale Francesco Paolo Figliuolo.

Dalemiani per sempre

Né Arcuri né altri pubblici ufficiali risultano indagati, e dalla struttura commissariale si segnala che nessuna promessa di incarico è mai stata rivolta allo stampatore. È un fatto, però, che quest’ultimo e l’ex commissario si siano incontrati almeno una volta, e che sia De Santis (imprenditore pugliese vicinissimo a Massimo D’Alema, che definì addirittura «un fratello maggiore») sia Romano, ex parlamentare di Forza Italia e di Ala di Denis Verdini, hanno ottenuto per motivi ancora da chiarire dalle società di Aleksic bonifici rilevanti: il primo ha guadagnato 30 mila euro, il secondo ha incassato 58mila euro tondi tondi. Se l’avvocato di De Santis spiega che il suo cliente non fa dichiarazioni, l’ex ministro si è giustificato parlando di «una semplice consulenza del tutto legittima». Per i magistrati romani, invece, quei soldi sono forse frutto di una mediazione illegittima, che avrebbe permesso a Farina di entrare in contatto con pubblici ufficiali, poi “trafficati” illecitamente dallo stampatore per ottenere commesse a sei zeri.

D’Alema, uno dei grandi sponsor politici di Arcuri (fu lui nel 2007 il regista della promozione del manager a Invitalia) è estraneo all’inchiesta, ma il suo nome spunta nelle carte come «capo» (lo descrive così Farina) di De Santis. La Guardia di Finanza segnala pure – grazie a un’intercettazione tra Farina e Bisignani – come lo stampatore riesca ad incontrare l’ex premier in Puglia nell’agosto 2020 («i rapporti con De Santis e l’ex presidente D’Alema sono finalizzati ad ottenere un incontro con Arcuri», scrivono) e raccontano di una possibile visita di Farina – al tempo pedinato - nella sede romana di Italianieuropei, istituto presieduto dall’ex comunista. Domani ha provato a chiedere conto a D’Alema di quanto scritto nell’informativa dei militari, ma il suo ufficio stampa ha detto che «il presidente non intende rispondere alle vostre domande».

Non è la prima volta che l’amicizia con l’imprenditore pugliese porta qualche noia all’ex presidente del Consiglio. Non tanto per le polemiche su “Ikarus” (i due furono comproprietari della barca progettata da Roberto Starkel), ma per quelle, furibonde, provocate dai rapporti tra Tarantini e lo stesso De Santis, il cui nome finì nei verbali dell’inchiesta sul rampante amico di Berlusconi. «È vero, siamo diventati amici, ma io sono pulito: lui che aveva consolidati rapporti con il centrodestra attraverso di me ha conosciuto vari esponenti del centrosinistra», disse candidamente De Santis dieci anni fa, convinto di non aver fatto nulla di male.

Benotti&Servizi

Anche Mario Benotti si dice innocente. Giornalista Rai in aspettativa, molte conoscenze in Vaticano e a palazzo, ha fatto il merge della vita guadagnando una commissione da ben 12 milioni di euro, gestendo una compravendita di di mascherine per oltre un miliardo di euro. Intermediazione da capogiro pagata (come quella da 60 milioni del suo socio nell’operazione, l’imprenditore Andrea Vincenzo Tommasi) dalle società cinesi che hanno venduto la merce al commissariato straordinario all’emergenza guidato al tempo da Arcuri.

Anche in questo caso, i manager pubblici sono per i pm solo i soggetti “trafficati”, cioè usati (a loro insaputa?) per chiudere i loro contratti d’oro. Sul banco degli accusati finiscono invece i mediatori, anche stavolta accusati di aver sfruttato illegittimamente amicizie e conoscenze per guadagnare cifre stratosferiche. Come nel caso di Farina e Aleksic, Benotti e Tommasi non sanno nella di apparecchiature medicali, né di forniture sanitarie. L’affare si può fare solo grazie ai rapporti di fiducia, dicono i pm, tra Benotti e gli uomini della struttura commissariale. Tra questi lo stesso Arcuri (i magistrati contano sul cellulare del giornalista tra gennaio e maggio 2020 ben 1.282 contatti con l’ad di Invitalia) e Mauro Bonaretti, ex capo di gabinetto dell’allora ministro dei Trasporti Graziano Del Rio, dicastero dove Benotti dichiara essere stato consigliere giuridico.

Possibile che amici degli amici possano guadagnare milioni solo perché vantano rapporti di fiducia o conoscenza con pubblici ufficiali preposti al flusso di spesa? Pare di sì. Anche perché sia i funzionari del commissario straordinario sia quelli della Protezione civile possono effettuare acquisti senza tener conto del codice degli appalti. Gli stessi enti pubblici, seppur non coinvolti giudiziariamente, hanno dimostrato una assoluta permeabilità agli appetiti di molti speculatori improvvisati, e poca trasparenza nella selezione dei contraenti. Una responsabilità che ricade anche all’esterno delle strutture, su chi doveva garantire maggiore controllo in merito a settori strategici della sicurezza nazionale. «In un paese dove i servizi segreti funzionano come si dovere non si aspetta l’intervento della magistratura: l’operazione di Benotti e Tommasi si doveva intercettare subito, e bloccare sul nascere» spiega una qualificata fonte del Dis, il dipartimento che coordina i nostri servizi. «La nostra intelligence sulla carta ha il compito di monitorare strutture che spendono miliardi, in modo particolare se si sviluppano rapporti con aziende di stati stranieri extra Ue e fuori dalla Nato. In questo caso, ricordo, i beneficiari sono due imprese cinesi».

Benotti, a Quarta Repubblica, ha dichiarato che i rapporti con Arcuri sono rimasti ottimi per molte settimane, e che le comunicazioni si interrompono solo il 7 maggio 2020. Quando il commissario, in un incontro avvenuto nei pressi dell’ufficio del giornalista, gli avrebbe rivelato l’esistenza di «indagini» fatte proprio dai nostri servizi in merito all’affare. Arcuri ha smentito seccamente la ricostruzione di Benotti, ma delle due l’una: o i servizi hanno fatto davvero un’informativa che non ha poi avuto seguito per motivi sconosciuti, oppure i nostri agenti non si sono accorti di nulla. Giuseppe Ioppolo e Salvino Mondello, avvocati di Benotti, gettano acqua sul fuoco, e spiegano che hanno i rapporti con Arcuri sono «intercorsi in maniera trasparenti, alla luce del sole. La richiesta di mascherine? È venuta proprio da Arcuri, e lo stato da questa vicenda ha avuto solo vantaggi».

“Trafficante” o lobbista?

Se i fatti elencati da ordinanze di sequestro e arresti domiciliari sembrano clamorosi, la partita dei pm in effetti non è in discesa. E non è detto che l’accusa riuscirà a inchiodare alla fine chi ha speculato sulla pandemia. Se l’abuso d’ufficio è stato ormai depotenziato e nessun pubblico ufficiale (a parte Fontana) risulta ad oggi indagato (per Arcuri pende davanti al gip una richiesta di archiviazione) il traffico di influenze per molti resta un reato “giovane”, e troppo evanescente. «La sua tipicità è poco afferrabile. La descrizione del delitto è abbastanza vaga e crea pericoli non solo per i cosiddetti faccendieri che agiscono nell’ombra, ma anche per i professionisti seri, i lobbisti, che si trovano ad operare in un quadro normativo assai incerto», dice il professore Vincenzo Mongillo, professore ordinario di diritto penale presso Unitelma Sapienza che sul tema ha scritto un lungo saggio. «La determinazione dei fatti penalmente rilevanti finisce per essere demandata esclusivamente all’apprezzamento del giudice». Il problema riguarda non tanto l’articolo del codice penale, che pure è stato modificato nel 2019, quanto l’assenza di una disciplina organiche che regoli l’attività di mediatori e lobbisti. «L’assenza di regole per i portatori di interesse perdura da decenni, e fa si che il traffico di influenze sia sostanzialmente appeso nel vuoto», chiude Mongillo.

Un vulnus grave e tutto italiano, perché oggi è il singolo giudice a dover decidere, a sua quasi esclusiva discrezionalità, se una mediazione d’affari è legittima oppure è reato grave. Ed è probabile che presto comportamenti identici possano essere sanzionati in modo diverso a secondo del tribunale che sentenzia. I politici potrebbero fare una legge ad hoc in pochi giorni, ma forse non conviene regolamentare davvero la materia: nella confusione e nell’indeterminatezza, chi ha mezzi e le capacità (per fare business e poi difendersi con gravi avvocati) prospera meglio che davanti a leggi chiare e ben scritte.

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