Tutto intorno a Raffaele Fitto. Anzi, sulle sue spalle. Dal Mezzogiorno all’Europa, il ministro tuttofare sta pagando il conto proprio al suo essere factotum a Palazzo Chigi.

Una somma di poteri che lo sta portando a inanellare una serie di errori. L’elenco si sta allungando: dalla strategia sull’ex Ilva alla zes unica che paradossalmente ha rallentato l’attività delle zone economiche speciali, quando avevano iniziato a girare a pieno regime. Il motivo di un certo affanno è legato a un dato innegabile: tra le tante deleghe, c’è la più pesante, quella sul Piano nazionale di ripresa e resilienza. Basterebbe solo questa a tenerlo impegnato h24. Una faticosa scalata che Fitto sta portando avanti con capacità e tenacia.

La quarta rata del Pnrr è arrivata a fine dicembre, mentre è già partita la richiesta per la quinta. La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ringrazia il ministro in ogni dichiarazione sul tema: è una sorta di scialuppa di salvataggio.

Solo che, come qualsiasi nave di emergenza, l’eccessivo carico inizia a far imbarcare acqua. La premier non ha alternative: la classe dirigente del suo partito non mette a disposizione personale politico all’altezza della sfida. Certo, la premier ha difeso i fedelissimi di Fratelli d’Italia nella conferenza stampa di fine anno.

Il caso-Pozzolo insegna più di tutti, ma anche gli scivoloni del sottosegretario Andrea Delmastro restano emblematici. Inevitabilmente Meloni deve affidarsi a chi vanta esperienza amministrativa e di lungimiranza politica.

E quindi sa muoversi con prudenza e con scaltrezza nei meandri del potere. L’identikit dell’imperituro democristiano Fitto, che ha scoperto di trovarsi a proprio agio negli abiti del conservatore, tendenza europea.

Nubi europee

Per questo al momento della distribuzione delle funzioni, Meloni lo ha sovraccaricato. C’era da pensare al Mezzogiorno? E chi meglio dell’ex presidente della regione Puglia.

C’è da parlare di affari europei e sviluppare le politiche di coesione? Perché non affidarsi a «Raffaele» che in Ue si muove senza complessi di inferiorità. C’è da attuare il Pnrr? Nessun dubbio: il dossier va dato a Fitto. Così viene schiacciato dalle responsabilità. Non solo per colpe altrui. Talvolta è lui stesso che si fa prendere dalla smania di accentramento.

Un esempio? Sul Pnrr ha voluto portare tutto sotto il proprio controllo. Il modello è stato “importato” su altri dossier, come la gestione dei fondi di coesione. Così ecco che, nella metafora marinara, la scialuppa si è appesantita.
E il diretto interessato ha il fiato corto, anche su una delle specialità della casa: i rapporti con l’Ue, che lui cerca di curare con maniacale attenzione. Ma non è uscito molto bene anche da una partita delicata, crocevia dei rapporti Roma-Bruxelles: quella delle concessioni balneari. Il ministro degli Affari europei sarebbe favorevole a una maggiore apertura alla concorrenza, tesi portata avanti da tempo.

Tanto da essersi attirato l’ostilità della lobby dei balneari, che all’insediamento hanno fatto scattare un alert intorno al suo ruolo. Non è un caso che posizione di Fitto fatichi a imporsi con i colleghi di governo, nonostante abbia maggior voce in capitolo rispetto ai rapporti con l’Ue. I tentennamenti si traducono in fatti. Nell’ultima settimana ha dovuto sottoscrivere l’ennesima lettera di compromesso in cui chiede altri quattro mesi di tempo per completare l’opera di mappatura delle coste italiane.

Un rinvio in prossimità di maggio-giugno, quando si terranno le elezioni Europee. Un calcolo perfetto per far dire a Meloni che non ha ceduto sulle concessioni.

Il passo indietro è quello Fitto, che senza una reale soluzione rischia di metterci la faccia sulla procedura di infrazione che Bruxelles potrebbe aprire, proprio su un tema molto delicato. Non il miglior biglietto da visita per chi accarezza l’ambizione di diventare commissario nella prossima commissione Ue.

Il simbolo ex Ilva

La gestione dell’ex Ilva, poi, rappresenta un vero macigno per chi è anche ministro del Sud: Fitto ha imposto la linea della trattativa a ogni costo con ArcelorMittal per spingere gli imprenditori indiani a investire sullo stabilimento di Taranto.

La strategia, alla lunga, si è rivelata perdente. Sono trascorse settimane e i problemi si sono stratificati, mentre il collega di governo, Adolfo Urso, spingeva per l’ingresso dello stato, una nazionalizzazione di fatto per esplorare nuove soluzioni. E secondo il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ci sono «molti interessati a produrre acciaio in Italia».

Tradotto: inutile intestardirsi sullo status quo.E sempre sul sud c’è stato il rovescio fittiano sul fondo perequativo infrastrutturale – raccontato da Domani - con 3,7 miliardi di euro cancellati nell’ultima manovra, senza che da Palazzo Chigi, al dipartimento guidato dall’onnipresente Fitto, nessuno abbia battuto ciglio.

Da Fratelli d’Italia c’è stata la flebile difesa d’ufficio che parla di una generica «rimodulazione». Resta che la dotazione è stata disattivata.

Meno mediatico, ma altrettanto significativo, è lo scivolone sulla zes unica, partita a gennaio, provocando un effetto straniante: le zone economiche speciali erano finalmente partite, ma si sono fermate subito per la riscrittura del progetto firmato Fitto. Una sommatoria di nodi da sciogliere che diventano ko politici.

Quasi inevitabili vista la mole di lavoro da svolgere. Perché Meloni non ha altri profili adatti ai ruoli. E a pagarne dazio è «quello bravo» (copyright fonte di Palazzo Chigi), che alla lunga rischia di perdere smalto.

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