L’Italia resterà ancora una delle Cenerentola d’Europa sui diritti dei lavoratori. Il governo Meloni ha detto definitivamente “no” al salario minimo, che non sarà istituito per legge. L’esecutivo dovrà predisporre una normativa, esercitando una delega entro sei mesi, che non prescrive appunto l’introduzione di una retribuzione minima orario. Il risultato è che 3 milioni e mezzo di lavoratori resteranno sotto la soglia della paga dei 9 euro all’ora. Il lavoro povero non è una priorità per la premier Giorgia Meloni e per i suoi alleati.

La destra al governo ha imposto il proprio volere, senza andare per il sottile nemmeno nella procedura istituzionale. Ha fatto saltare l’iniziativa politica delle opposizioni con un assalto parlamentare in piena regola, firmando un maxiemendamento che ha ribaltato il senso della proposta delle opposizioni. Altro che dialogo e spirito costituente. Alla Camera sono state presentate,, ancora una volta, quattro proposte delle minoranze per ristabilire il precedente contenuto: il centrodestra ha votato contro.

Niente firma delle opposizioni

Nessuna novità, dunque: è finita così come era stato preventivato. Le opposizioni hanno reagito infuriate al definitivo affondamento, almeno per questa legislatura, del salario minimo. Giuseppe Conte, in aula, ha platealmente strappato il testo della legge delega che dovrà definire “l’equa retribuzione”, come l’ha ribattezzata il centrodestra cambiando pure l’etichetta. «Dopo balletti e teatrini e rinvii, il governo e Meloni hanno gettato la maschera», ha attaccato Conte. «Chi in quest’aula ha votato no si deve vergognare», ha incalzato il presidente del M5s, «e questo gesto non lo farete in nome mio e del movimento 5 stelle. Per questo ritiro la mia firma alla proposta di legge». I deputati del Movimento hanno seguito l’esempio del loro presidente, ritenendo impossibile mantenere la sottoscrizione dopo il cambiamento radicale del testo. Una mossa che ha poi unito tutte le altre opposizioni: nessuno vuole metterci più la faccia, o meglio il nome, su quel provvedimento. Il capogruppo di Azione, Matteo Richetti, ha sintetizzato le motivazioni: «Questa non è più la proposta di salario minimo delle opposizioni». Dalla maggioranza, non c’è stata alcuna apertura, anzi. Solo una replica sprezzante: «Quando si dice 'ritiriamo la firma' si fa un atto di esclusiva natura politica, perché sotto gli effetti regolamentari non ha alcuna funzione, non ha alcuna speranza, non ha alcun effetto, ha effetto per andare al telegiornale», ha detto il capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia, Tommaso Foti.

Nel Partito democratico i toni non sono stati più teneri. Tutt’altro. Ci ha pensato la segretaria Elly Schlein ad attaccare a testa bassa: «State dalla parte degli sfruttatori e voltate le spalle a chi viene sfruttato. Date uno schiaffo in faccia a chi viene sfruttato. Vergogna». Italia viva, che pure non aveva supportato le altre minoranze, ha sottolineato la forzatura messa in atto dal governo: «Non è mai successo che una proposta dell'opposizione non sia stata emendata, ma cancellata e sostituita con una delega di segno contrario», ha sottolineato il deputato di Iv, Luigi Marattin.

Copione già scritto

Il maxiemendamento è stato preparato dal presidente della commissione Lavoro e deputato di Fratelli d’Italia, Walter Rizzetto. Il provvedimento prevede che il governo, entro sei mesi, quindi non oltre giugno 2024, dovrà legiferare con lo scopo di garantire «l'equa retribuzione» per i lavoratori. Dietro la dicitura si cela uno stratagemma per abbattere definitivamente l’iniziativa  sul salario minimo, avviato dalle opposizioni, e sostenuto con una campagna di raccolta firma. L’operazione-affossamento è partita da tempo: ieri, a Montecitorio, è andata in porto, secondo il copione ben preparato da Palazzo Chigi fin dalla scorsa estate.

La presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, ad agosto, volle convocare i leader delle opposizioni, sull’onda lunga della raccolta firme e dei sondaggi che indicavano un gradimento verso l’introduzione di un salario minimo per legge. Il vertice, alla fine, si è rivelata una farsa, un modo per traccheggiare e dare la sensazione di una leader dialogante. La palla è stata spedita in tribuna, subito dopo il tavolo con le forze di opposizione, affidando il dossier al Cnel di Renato Brunetta. E l’orientamento dell’organismo guidato dall’ex ministro berlusconiano era già stato reso noto durante il ciclo di audizioni in parlamento. Il preludio all’affondamento della legge.

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