Senza un forte aumento del canone la Rai di Carlo Fuortes arranca. A questa lapidaria e non confortante conclusione arriva un minuzioso rapporto sull’azienda pubblica della televisione preparato dall’Osservatorio delle imprese dell’università La Sapienza di Roma coordinato da Riccardo Gallo, un ex manager e risanatore di imprese statali.

Lo studio a cui hanno partecipato i professori Federica D’Urso, Damiano Garofalo e Roberto Cusani, entra nei meccanismi che regolano la vita dell’azienda, fa luce sulla gestione economica, inquadra il ruolo del servizio pubblico nell’era delle piattaforme, affronta le incognite imposte dall’innovazione tecnologica. E alla fine spiattella un’altra conclusione forse scontata, ma anche questa assai poco rassicurante: la Rai del servizio pubblico va completamente ripensata.

Sia l’una sia l’altra considerazione contrastano con ciò che la Rai di Carlo Fuortes continua a essere nonostante tutti i tentativi di imbellettamento. E cioè un’azienda infeudata ai partiti dove non si muove foglia senza che la politica non voglia.

Di fronte alla necessità di alzare il canone e all’opportunità di rivoluzionare il modello d’azienda per far fronte alle sfide del futuro, i partiti sono adagiati su una lunghezza d’onda assai diversa.

Nel caso dell’aumento del canone a nessun governo e a nessuna forza politica piace intestarsi una decisione che è molto impopolare considerando che il canone è una delle tasse ritenute più indigeste dagli italiani.

Mentre per quanto riguarda il modello d’azienda i partiti non si scapicollano per cambiarlo nonostante sia figlio di un’Italia che non c’è più.

Al punto che considerano ancora un tabù solo parlare del superamento della tripartizione dell’informazione in telegiornali che un tempo rappresentavano i tre filoni storici della politica del dopoguerra, i democristiani, i socialisti, i comunisti.

Subito un decreto

Per l’aumento del canone secondo l’Osservatorio delle imprese bisognerebbe che la politica fosse decisionista: «La soluzione più facile è che il governo decreti entro la fine del 2022 un forte aumento». L’esigenza di questo rincaro è dettata da tre circostanze.

La prima è il rischio molto forte che dall’anno prossimo gli introiti subiscano una flessione dal momento che il canone non sarà più prelevato in maniera automatica con la bolletta della luce. Per effetto di una sentenza europea si tornerà al sistema del pagamento volontario ed è molto alta la possibilità che l’evasione torni al galoppo dopo che era stata ridotta a dimensioni marginali.

Il secondo motivo che impone l’aumento del canone è che «nonostante abbondino sprechi per gli acquisti e nell’organico, non risulta che l’azienda sia pronta a tagliare drasticamente i costi nel 2023». Dal 2006 a oggi l’organico è cresciuto di circa 1.300 unità da 11.436 persone a 12.711, il costo del lavoro rappresenta più dell’80 per cento del valore aggiunto, mentre il costo per addetto è di 80 mila euro, considerato non elevato dagli estensori del rapporto. Ciò significa che i possibili risparmi dovrebbero essere indirizzati non tanto sulle retribuzioni quanto sulla pianta organica considerata ridondante.

La terza circostanza che rende ineluttabile un rincaro del canone è legata all’esigenza di sostenere con investimenti adeguati l’innovazione tecnologica.

Con una scelta di politica di bilancio la Rai non copre la spesa per innovazione con nuovi mezzi finanziari, cioè con debiti a medio-lungo termine, ma ricorrendo al conto economico con minori costi e maggiori ricavi. Per i ricavi il canone è una delle due voci preminenti insieme alle entrate pubblicitarie.

La metà circa degli investimenti tecnologici è assorbita da Rai Way, società proprietaria delle torri di trasmissione, quotata in borsa e controllata dalla Rai con una quota del 65 per cento.

Rai e Mediaset

Rai Way detiene e gestisce la rete di trasmissione e diffusione del segnale ed è articolata in 2.300 siti distribuiti in modo capillare su tutto il territorio nazionale, così da coprire oltre il 99 per cento della popolazione. I siti comprendono due centri di controllo, una rete in fibra ottica, ponti radio e satelliti. Rai Way ha un fatturato di 230 milioni di euro, un risultato operativo di 91 milioni e un indebitamento finanziario netto di 88 milioni. Rai Way ha chiuso il 2021 con una capitalizzazione di borsa pari a 1.420 milioni, il valore d’impresa è di 1,5 miliardi.

Ray Way è affiancata da una società gemella che si chiama EI Towers, un tempo quotata ma poi tolta dal listino, posseduta per il 40 per cento da Mediaforeurope, holding del gruppo Mediaset, e per il 60 per cento da F2i, partecipata da Cassa depositi e prestiti. EI l’anno passato ha fatturato 275 milioni di euro, ha ottenuto un risultato operativo di 60 milioni, ma ha un indebitamento finanziario netto pari a 722 milioni. Rai Way ed EI Towers sono dunque quasi identiche, salvo per i debiti finanziari che nella società partecipata da Mediaset sono più di otto volte superiori a quelli di Rai Way. Il governo ha autorizzato la Rai a scendere sotto la soglia del 50 per cento nella partecipazione a Rai Way e secondo l’Osservatorio delle imprese «è già deciso che l’assetto societario di Rai Way venga aperto al gruppo Mediaset».

In pratica i soci delle due società gemelle stanno studiando una possibile fusione in modo che alla fine Mediaset si libererà del peso della società delle torri e «passerà la mano nella improba sfida tecnologica ai colossi mondiali».

Ma se fusione sarà, dovrà essere ben calibrata partendo dal presupposto che l’indebitamento di Rai Way è fisiologico, quello di EI Towers gigantesco.

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