«Siamo qui per comunicare le dimissioni delle ministre Bellanova e Bonetti», Matteo Renzi lo dice appena accende il microfono dell’aula dei gruppi parlamentari. Dalla mattina sono circolate voci di trattative in corso, passi indietro, passi avanti, un minuetto infinito. È finito: le ministre vanno, dietro loro anche il sottosegretario Ivan Scalfarotto. Ma in un profluvio verbale di più di un’ora non viene mai pronunciata la parola «irrevocabili».

E quando tocca alle ministre, dopo la geremiade sul governo arriva sempre lo spiraglio. «I costruttori ora possono entrare davvero in campo » (Bellanova), «se si vuole fare un patto di legislatura si faccia» (Bonetti). E anche Renzi non esclude un dialogo con questa maggioranza. Prima esprime la sua «fiducia incrollabile nel presidente della Repubblica». Poi elenca i cardini del dissenso: metodo democratico («non siamo in un reality show»), Mes e investimenti a partire dalla sanità. Si apre una crisi alquanto strana: Iv voterà i provvedimenti in arrivo, quelli economici e quelli sanitari.

La storia infinita non è finita ancora: «Un nuovo governo Conte? Non abbiamo veti su nessuno, né pregiudizi», dice Renzi. Ma – c’è un ma – per questa maggioranza «non c’è un solo nome, chi lo dice è lui irresponsabile». La traduzione non è semplice, Renzi sparge fumo. Un suo deputato la dice così: «Per noi il Conte ter non esiste». Un altro «Non c’è soluzione alla crisi che non passi per le dimissioni di Conte». Che ora deve salire al Quirinale per dichiarare quali frutti ha portato il muro contro muro con l’alleato che fa il guascone anche in tempi di pandemia.

Al Colle l’ora della verità

Le dimissioni delle ministre erano annunciate. Il cuore della giornata è un paio di ore prima. Intorno alle quattro del pomeriggio il presidente Giuseppe Conte va al Quirinale. Ha chiesto un colloquio. Andata insolitamente discreta, entra da una porta laterale, perché è chiaro a tutti – e adesso anche a palazzo Chigi – che Mattarella è molto preoccupato e molto meno paziente verso le trovate mediatiche. Il colloquio è breve. Per Conte è scoccata l’ora della verità, a lungo rimandata: al senato i «responsabili» sono stati cercati ma non ci sono. Non per ora.

Il presidente della Repubblica, il democristiano mite e non interventista che fin qui ha limitato allo stretto indispensabile anche la «moral suasion», stavolta non è indulgente con le ultime mosse di palazzo Chigi. Tutte sbagliate: questo Mattarella non lo dice, ma la conversazione parte dalla nota informale con cui Conte martedì ha minacciato Renzi («mai più con chi fa dimettere i ministri»). Un’azione impolitica. Conte si difende, si è trattato di «legittima difesa», ma conviene che lo spettacolo della coalizione è stato pessimo. Il presidente indica la via, forse l’unica per restare a palazzo Chigi: fare quello che fin qui non ha fatto, trattare e ricomporre la maggioranza.

Rimettere i leader intorno a un tavolo, stringere un patto di legislatura. Metodo Recovery: un testo che è stato migliorato con il contributo di tutti. Sminando i continui rilanci di Renzi. Sui responsabili è lo stesso Conte a ripetere quello che si è sentito dire al Colle: «Il governo deve avere una maggioranza solida, non può prendere un voto qua e là». Pronuncia questa frase al ritorno, in una nuova passeggiata fra la folla, gesto di forza che invece mostra improvvisa debolezza, vuole far vedere che «la gente» sta con lui. I sondaggi lo dicono chiaramente, anche se quella folla è solo di telecamere. Ma «la gente» non vota al senato. E se non si «ricompone la maggioranza» Conte dovrà passare la mano. Oggi Conte propone «un nuovo patto di maggioranza». «Ha cambiato consiglieri, da Travaglio-Casalino a Mattarella-Franceschini», lo canzona un renziano.

I responsabili non ci sono

Altro passo a ritroso nella giornata che si conclude con l’apertura della crisi. Dalla mattina c’è l’attivismo fortissimo di Nicola Zingaretti. Chiama Conte, poi chiama Renzi, sta per convincerli ad incontrarsi. Al Pd non piace affatto l’idea di appendere il governo a un manipolo di senatori timorosi di voto. Ma soprattutto Zingaretti ha capito che il manipolo che Conte insegue è una chimera.

Per Renzi sarebbe una pacchia (è stato lui il primo a far circolare la voce della loro esistenza). Il loro sì significherebbe che dietro le quinte Berlusconi ha benedetto il Conte ter. Invece Berlusconi ha detto no, e questo no gli consente di rialzare le sue quotazioni con l’alleato Salvini, Il no è stato detto direttamente a Gianni Letta, che sarebbe andato a trovarlo. Letta, da sempre in ottimi rapporti con Goffredo Bettini. Zingaretti tenta fino in fondo la mediazione fra Conte e Renzi. Ma Renzi per ora non si sposta. Prima le dimissioni di Conte, poi si vedrà. A sera il leader Pd è durissimo: «Da Italia viva un errore contro l’Italia».

Tutto il Pd suona lo stesso spartito. La crisi c’è. Ma c’è ancora un filo dialogo. Conte deve provare a riallacciarlo. Renzi per ora di «Conte ter» non vuole sentire parlare. E se Conte riuscirà a trovare i voti per trascinarsi avanti, ha confidato in serata, facciano vedere quello che sanno fare, aggiungendo, altrimenti ne riparleremo fra sei mesi.

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