Il ministro per l’Autonomia, Roberto Calderoli, l’ha ripetuto in tutti i modi, anche ieri dalla Sardegna che è una delle regioni a statuto speciale: «Non c’è nessuna volontà di dividere l’Italia» tra regioni di serie A e di serie B, tra sud e nord, ricchi e poveri. Ha parlato di «opportunità» per tutti, anche perché ha dovuto difendersi dal fuoco amico di una bozza provvisoria del servizio del bilancio del Senato in cui si è messo in luce il rischio di allargare la forbice tra meridione e settentrione. Il testo doveva rimanere ad uso interno per i parlamentari ma è stato divulgato per un errore che ha avuto il sapore di un’imboscata.

Ma soprattutto Calderoli ha ricordato un passaggio che suona tutt’altro che secondario in questo momento di emergenza: «Ci sono tre regioni, Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna, che hanno già firmato intese con lo Stato, altre 11 regioni a statuto ordinario chiedono maggiori spazi di autonomia».

Nessun partito ha voluto mischiare la polemica politica sull’autonomia differenziata con il disastro ambientale dopo l’alluvione in Emilia-Romagna, ma il tema esiste e apre una questione determinante: l’eventuale autonomia toccherà la capacità di ogni regione di rispondere alle emergenze senza penalizzare i territori meno ricchi?

Le risposte sono diametralmente opposte: se la Lega è capofila nel governo (decisamente più tiepido) in favore della riforma, dal fronte dell’opposizione vi è chiusura totale. La segretaria del Pd, Elly Schlein, ha detto ieri a Repubblica di essere «contraria nel merito e nel metodo», considerando la riforma non condivisa dai territori o in parlamento e una «bandierina ideologica che rischia di dividere il Paese».

Il governatore emiliano Stefano Bonaccini è doppiamente chiamato in causa. Come ha ricordato Calderoli, nel 2019 aveva sottoscritto una bozza di richiesta di devoluzione di materie alla sua regione. Tuttavia, in gennaio quando si è discusso del ddl Calderoli, si è collocato sulla linea Schlein per quanto riguarda la riforma del governo, definendola «pasticciata», perché mancano «i livelli essenziali di prestazione, va tolta la spesa storica in modo da trattare in modo equo tutte le regioni». Tradotto: la riforma del governo è soprattutto economica e rischia di mettere in ginocchio le regioni del sud. Mentre quella che vorrebbe Bonaccini sarebbe più amministrativa, perché dovrebbe «togliere burocrazia e permettere di programmare investimenti».

Protezione civile

Tuttavia il tema rimane: le materie previste dalla Costituzione al titolo V come devolvibili alle regioni sono 23 e tra queste ci sono anche la protezione civile e la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema. Quindi, in astratto, se una regione chiedesse di assumere la competenza su questi temi e la richiesta venisse accolta, diventerebbe titolare di due tra i settori chiave. Certamente l’emergenza rimarrebbe gestita su scala nazionale, ma la pianificazione e l’amministrazione verrebbero devolute alla regione.

Nella bozza di accordo del 2019 presentato da Bonaccini, infatti, sono contenuti sette articoli che riguardano proprio questi settori. La regione chiedeva competenza nel «garantire un livello regionale unitario ed integrato delle risorse ordinarie statali, regionali e comunali, nei settori della protezione civile e della sicurezza territoriale», «garantire un governo regionale autonomo delle risorse straordinarie stanziate a valle delle emergenze» e «competenza amministrativa e legislativa in relazione alla gestione delle emergenze», con il potere di attribuire al presidente della regione, nell’imminenza di emergenze, «il potere di adottare ordinanze di protezione civile in deroga alla normativa statale e regionale vigente». Competenze quindi che – se l’accordo di autonomia fosse andato in porto – avrebbero inciso anche nell’attuale emergenza. Come ha ricordato Schlein, tuttavia, oggi questa proposta dell’Emilia Romagna è sorpassata rispetto al ddl di Calderoli.

Tuttavia, in astratto, con l’autonomia le emergenze potrebbero avere gestioni decentrate. Regioni ricche come l’Emilia potranno permetterselo e quindi potrebbero chiedere la competenza, regioni più povere come la Calabria ma con altrettanti rischi ambientali invece no, ma a quel punto lo stato avrebbe risorse inferiori da stanziare.

Il Pnrr

Esiste però un ulteriore livello del problema: perdere una regia unica crea molti campanili ma poche reti e la riforma delle autonomie potrebbe aumentare ancora la frammentazione. Già negli ultimi anni è andata aumentando la sovrapposizione tra Stato e regioni con la cancellazione nel 2018 della struttura di missione “Italia Sicura”, con il risultato che circa 8,4 miliardi di euro destinati alla mitigazione del rischio idrogeologico sono fermi da allora. A questi si aggiungono circa altri 8,5 miliardi di risorse Pnrr, di cui 6 assegnati ai comuni. La questione, quindi, non è tanto se le risorse economiche per la prevenzione ci siano, ma se si riescano a spendere. E questi mesi cruciali per il Pnrr hanno messo in evidenza un dato: i progetti passano per buona parte attraverso gli enti locali, che già oggi – come ha scritto la Corte dei conti – sono in difficoltà nell’esecuzione dei bandi. Assegnare ulteriori fondi a strutture già in affanno rischia di allargare le criticità. Un punto, questo, che il governo e soprattutto il ministro Calderoli, non potranno non tener presente nel portare avanti accanto al Pnrr anche la riforma sull’autonomia.

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