Perché per sostituire il concessionario di Autostrade per l’Italia (Aspi) non è stata indetta una gara dopo che alla fine di un’interminabile e assai poco trasparente fase preparatoria la concessione è stata tolta ai Benetton? Perché è stato fatto credere che con l’intervento di Cassa depositi e prestiti (Cdp) come acquirente insieme ad alcuni soggetti privati dell’88 per cento di Atlantia della famiglia di imprenditori veneti proprietaria di Aspi, si stava passando da una gestione privata delle autostrade a una pubblica quando non è affatto vero?

Perché alla fine il costo complessivo dell’operazione è stato di 21 miliardi e 300 milioni di euro quando invece se fosse stato semplicemente pagato un indennizzo al concessionario uscente, come sarebbe stato possibile nel rispetto della convenzione in essere e senza peraltro adire a tortuose vie legali, il costo sarebbe risultato di gran lunga inferiore, pari a 13 miliardi e 800 milioni di euro?

Perché è stato deciso di regalare ad Atlantia, cioè ai Benetton, la bellezza di 7 miliardi e mezzo di euro? In base a quale logica: come premio per avere fatto crollare il ponte di Genova dove sono morte 43 persone? E perché mai i Benetton dovevano essere premiati se tutta la trattativa che si è snodata dopo il crollo si è basata sulla necessità di sostituirli proprio a causa delle loro conclamate inadempienze?

Alla fine chi pagherà i costi esorbitanti sostenuti? Lo stato con un aggravio del passivo di bilancio o solo gli automobilisti che quasi sicuramente da qui alla scadenza della concessione fissata per il 2038, invece di essere risarciti magari con l’attenuazione dei pedaggi per i disagi e i disastri causati dalla pessima manutenzione precedente, dovranno invece pagare molto di più al casello facendo felici i nuovi padroni, Cdp che è pubblica per oltre l’83 per cento, ma soprattutto i soci privati, i fondi di investimento stranieri Blackstone e Macquarie che ora hanno la maggioranza di Autostrade per l’Italia?

Senza gara

LaPresse

Qualcuno prima o poi dovrà fornire all’opinione pubblica una risposta a questa sequela di domande che scaturiscono dall’esame attento degli atti pubblici relativi alla lunghissima operazione Benetton-Cdp e soci avvenuta sotto l’occhio complice del ministero delle Infrastrutture guidato da Enrico Giovannini.

In primis il governo Draghi dovrebbe dare chiarimenti per la parte riguardante le scelte politiche alla base della strampalata operazione. E magari anche la magistratura potrebbe dare il suo contributo se dall’esame dei vari passaggi dovessero emergere, come è possibile, profili legali dolosi.

Una serie di soggetti privati aggregati intorno all’associazione dei consumatori Adusbef ha già presentato un ricorso al Tar sostenendo che ci sarebbe voluto un dibattito parlamentare e un provvedimento legislativo ad hoc a sostegno di un’operazione così rilevante che riguarda i circa 3 mila chilometri del sistema autostradale più esteso d’Italia.

Il mancato ricorso alla gara per l’aggiudicazione della concessione avrebbe forse avuto un senso se l’acquirente di Autostrade per l’Italia fosse stato un soggetto pubblico come Cdp.

Ma così non è: l’acquirente è un consorzio tra parte pubblica e privata e fatti i conti Cdp non ha la maggioranza del capitale, ma è in minoranza con il 44,88 per cento, mentre la maggioranza del 55,12 per cento è in mano ai fondi privati.

Attraverso l’atto di transazione con il vecchio concessionario uscente è stato stabilito che lo stesso atto sarebbe stato valido ed efficace solo a patto che le quote di Autostrade per l’Italia fossero vendute proprio al consorzio costituito da Cassa depositi e prestiti e fondi privati.

I Benetton si sono quindi fatti da parte dopo che è stata garantita loro la sicurezza che ci sarebbe stato un acquirente certo per rilevare le loro quote. A venditore e acquirente lo stato ha poi concesso la possibilità di trattare tutelando i loro privati interessi al riparo dall’incomodo della gara.

L’anomalia è evidente. In pratica è stato allestito al di fuori delle regole un meccanismo di compravendita tra privati e non si capisce in base a quale logica sia stato privilegiato un acquirente privato a un altro.

Per l’acquisto di Aspi il consorzio guidato da Cdp ha pagato un prezzo tra i 9 miliardi e cento milioni di euro e i 9 miliardi e mezzo. In più si è accollato i debiti della concessionaria per circa 8,8 miliardi e poi l’onere del risarcimento dei danni provocati dal crollo del ponte di Genova valutati 3,4 miliardi. Il costo complessivo dell’operazione è quindi di almeno 21 miliardi e 300 milioni di euro.

Diritto di recesso

Se invece di percorrere questa strada straordinariamente onerosa lo stato attraverso il ministero delle Infrastrutture titolare della concessione, avesse deciso di rientrare in possesso del bene dato in concessione ricorrendo al diritto di recesso, la storia avrebbe preso una piega completamente diversa.

Il recesso è un insindacabile diritto di cui il ministero delle Infrastrutture godeva essendo previsto dalla convenzione accettata a suo tempo anche da Aspi.

Evitando gli strascichi derivanti dalle contestazioni legali nei confronti del concessionario, il valore di indennizzo sarebbe stato di 13,8 miliardi di euro e i contenziosi per il crollo del ponte Morandi e per le scarse manutenzioni sarebbero rimasti a carico dei Benetton.

La Corte dei conti ha chiesto al ministero delle Infrastrutture perché non è stata seguita la strada del recesso, più semplice e conveniente per lo stato, e il ministero delle Infrastrutture ha inspiegabilmente risposto che il costo più oneroso, cioè i 21,3 miliardi di euro, è anche congruo. In forza del vecchio Piano economico finanziario (Pef) di Aspi tale assunzione determina un tasso di rendimento di mercato di circa il 5 per cento.

Lo stesso tasso di mercato non è stato però utilizzato nel nuovo Pef concordato dal ministero con il nuovo concessionario Cdp più i soci per remunerare il capitale investito nell’arco della durata della concessione tenuto conto dei 21,3 miliardi di euro sborsati.

Per garantire al nuovo concessionario il rientro della spesa esorbitante e poi il conseguimento di un utile gli è stato accordato un rendimento più che doppio, il 13 per cento circa.

Se questo 13 per cento fosse stato utilizzato per il calcolo dell’indennizzo con il recesso, l’importo da pagare sarebbe sceso a 13,8 miliardi. La conseguenza di tutto ciò è una doppia beffa: il regalo miliardario ai Benetton impone l’inevitabile aumento dei pedaggi, il 2 per cento annuo circa fino al 2038.

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