Il pasticcio vaticano si consuma di mattino presto. Quando il presidente del collegio dei giudici, Giuseppe Pignatone, con un’ordinanza a sorpresa ha deciso di bocciare una parte importante dell’atto d’accusa con cui i promotori di giustizia Alessandro Diddi e Gian Piero Milano hanno mandato a processo il cardinale Angelo Becciu e altri imputati eccellenti. Tutti accusati di aver depredato le finanze della Santa sede per la compravendita del palazzo londinese di Sloane Avenue.

Pignatone non è entrato nel merito delle varie fattispecie di reato. Ma annullando il rinvio a giudizio di figure centrali come il finanziere Raffaele Mincione, Fabrizio Tirabassi, Mauro Carlino e l’avvocato Nicola Squillace, e ordinando la restituzione degli atti di gran parte delle accuse rivolte sia al banchiere Enrico Crasso sia allo stesso Becciu, ha smontato l’intero impianto procedurale disegnato dai pm di papa Francesco. Rei, di fatto, di non aver rispettato i diritti della difesa e garantiti persino da un codice penale vetusto e poco garantista come quello vaticano.

La bocciatura

Pignatone accogliendo le istanze delle difese ha certificato che Diddi e gli altri promotori in molti casi non hanno effettuato interrogatori sui fatti oggetto dell’imputazione «né i fatti sono stati enunziati in un mandato», come invece vuole un articolo del codice penale.

Secondo gli imputati, in questo modo, «è stato leso in modo gravissimo il principio del contraddittorio» dal momento che sarebbero «stati rinviati a giudizio senza essere messi in grado di conoscere le contestazioni loro ascritte». E dunque senza potersi difendere in fase preliminare, con contraddittori che avrebbe potuto portare in teoria a un’archiviazione e non a un rinvio a giudizio.

Diddi, uomo vicinissimo al papa e grande regista dell’accusa, a fine luglio aveva chiesto il rigetto dell’eccezione. Nell’udienza dell’altro ieri aveva invece tentato un colpo di coda, forse preoccupato dalle possibili decisioni di Pignatone: in un afflato di garantismo, aveva insolitamente chiesto che tutti i rinvii a giudizio da lui fatti gli fossero restituiti, per poter integrare il fascicolo con nuovi interrogatori e «garantire nel modo più ampio ed opportuno i diritti della difesa», evidentemente fino a quel momento non rispettati appieno.

Vizi procedurali

L’ex capo della procura di Roma però ha deciso di metterlo di fronte al fatto compiuto, e ha provato a mediare con un provvedimento accorto che sembra voler salvare capra e cavoli. Consentendogli contemporaneamente di non mettere la faccia su un processo che, senza aggiustamenti, partiva azzoppato da procedure viziate all’origine.

Il dispositivo non evita però la magra figura fatta non solo all’ufficio dei pm, ma all’intera istituzione che ne viene indirettamente coinvolta: Pignatone ha infatti dichiarato «fondata» la violazione da parte di Diddi e gli altri pm del codice penale, anche se solo per alcuni imputati. Che di fatto vengono stralciati dal processo, che va avanti almeno per ora solo su questioni minori: tutta la vicenda del palazzo londinese, cuore del fascicolo, dovrebbe infatti essere “congelata” visto che il rinvio a giudizio di uno dei massimi protagonisti – Mincione – è stato azzerato.

Anche nel caso di Becciu, per alcuni reati come il peculato in merito ai presunti finanziamenti illeciti alla cooperativa dei fratelli in Sardegna, si torna al punto di partenza. Tutti gli imputati dovranno essere ora richiamati dai promotori e interrogati sui singoli reati di cui non erano a conoscenza. Per l’accusa è una mezza Caporetto, ma poteva andare peggio. Se non nei fatti (è improbabile però che in tempi brevi si riescano a sentire tutti gli imputati), il disastro è nell’immagine approssimativa data all’esterno su un procedimento delicatissimo: la gestione delle procedure è stata quantomeno improvvida e non garantista.

Dopo la vicenda dei rescritti del papa, che durante l’indagine ha, da monarca assoluto della Santa sede, modificato le norme agevolando l’accusa, le polemiche hanno riguardato anche un’altra questione rilevante: quella del mancato deposito da parte dei pm di alcune prove considerate decisive. In particolare le trascrizioni e le video registrazioni degli interrogatori di monsignor Alberto Perlasca, passato da principale imputato a grande accusatore di Becciu.

Interrogatori di cui Diddi e Milano hanno consegnato solo verbali in forma riassuntiva, e che secondo le difese presentano buchi e discrasie rispetto a quanto scritto in un altro memorandum depositato dall’ex amico di Becciu.

Pignatone la scorsa estate aveva già imposto ai promotori di consegnare tutti gli atti in loro possesso, e lo scorso 27 luglio Diddi «aderiva alla richiesta esplicitando», ricorda il capo del collegio, «che in proposito non c’è nessun problema». Salvo cambiare idea alla vigilia della scadenza, spiegando che la «divulgazione del materiale» porterebbe «grave e irreparabile nocumento dei diritti delle persone che hanno partecipato» all’interrogatorio. Questioni di privacy, insomma.

Mistero Perlasca

Pignatone invece è d’accordo anche stavolta con gli avvocati difensori che segnalano come quegli interrogatori (e altre chat sequestrate ma mai depositate) sono elementi indispensabili al corretto e completo esercizio del diritto di difesa. E ha così ordinato ancora una volta ai promotori del papa di depositare tutti gli interrogatori audio e video degli imputati e di monsignor Perlasca. «Non si comprende come la tutela della riservatezza possa essere messa a rischio dalla pubblicità, propria della sede dibattimentale, di atti che per loro natura non sono sottoposti a segreto di dichiarazioni, come quelle di Perlasca, che lo stesso promotore ha indicato come fonti di prova e ha ripetutamente evocato per motivare la sua richiesta di citazione a giudizio degli imputati», chiosa il provvedimento del collegio.

«Nel merito si deve in primo luogo osservare che il deposito degli atti richiesti dalle difese appare indispensabile al fine di assicurare la par condicio delle parti nella conoscenza degli atti e quindi il rispetto del principio del contraddittorio. Per altro non si può fare a meno di notare che il promotore di giustizia aveva chiaramente affermato che la videoregistrazione era stata effettuata con la piena consapevolezza e il consenso di tutti i partecipanti e che non c’era alcun problema che ne impedisse il deposito»

Pignatone chiede a Diddi di sciogliere anche un altro mistero mai chiarito dall’accusa: Perlasca, un tempo indagato, è stato definitivamente archiviato o è imputato in altri procedimenti segreti di cui nulla si conosce? E se è uscito dal processo, quasi sono i motivi per cui da sospettato numero uno dello scandalo londinese (è lui ad aver messo la firma su molti atti dell’affare del palazzo) è uscito infine del tutto indenne dalla vicenda?

Pignatone vuole saperlo, e come lui molti gli osservatori che non si aspettavano scontri così duri tra due uomini scelti direttamente da Francesco per gestire uno dei processi più delicati della storia recente della chiesa.

 

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