Quello di Silvio Berlusconi è stato uno strano liberalismo, empirico ed empatico ma certamente poco riformatore. L’Italia dei manager e degli imprenditori che doveva portare l’Italia nella stagione del liberismo globale, nella scia della proposta politica di Reagan e Thatcher, si è per lo più risolta in una tutela di gruppi d’interessi e corporazioni.

Anche l’aggressione alla spesa pubblica, ai malfunzionamenti della macchina statale, alle inefficienze del settore pubblico si è risolta in un nulla di fatto o quasi. Ciò è accaduto nonostante Berlusconi si sia circondato dei migliori intellettuali liberali e conservatori disponibili negli anni Novanta: dal filosofo Marcello Pera ad un giornalista colto come Paolo del Debbio, da una colonna portante del liberismo come Antonio Martino ad un uomo di cultura come Giuliano Urbani.

L’anticomunismo

Nonostante queste ambizioni culturali e programmatiche i governi di centrodestra hanno proceduto per piccoli passi, micro-riforme, politiche troppo modeste rispetto alle ambizioni iniziali. Ciò è avvenuto sia per i problemi personali di Berlusconi – i conflitti d’interesse delle proprie aziende e lo scontro con una fazione politicizzata della magistratura – sia per gli obiettivi spesso divergenti dei suoi alleati.

Questi modesti risultati di una rivoluzione liberale che mai è stata tale non spiegano in apparenza i successi politici del berlusconismo, eppure a guardarci dentro meglio lo raccontano invece molto bene. Berlusconi aveva una concezione molto peculiare, ben diversa rispetto a quella limpida proposta dai suoi scudieri intellettuali, e politicamente efficace del liberalismo, che si accordava ai desideri di un elettorato che non amava i cambiamenti, desiderava concretezza e voleva soprattutto proteggere i propri legittimi interessi.

Non è un caso che Berlusconi, in fin dei conti, abbia fatto leva più sull’anticomunismo che sul liberalismo degli italiani. Gli elettori venivano da quasi cinquant’anni in cui i partiti di maggioranza della prima repubblica erano uniti, al fondo delle cose, dall’anticomunismo.

Questo, complice anche una sinistra incapace di rinnovarsi totalmente dopo il 1991, è stato il viatico utilizzato dal Cavaliere per mettere insieme in pochi mesi una maggioranza politica e parlamentare nel 1994. Da quel successo Berlusconi non è mai più tornato indietro e fino al suo ultimo discorso prima di morire ha sempre rivendicato come cavallo di battaglia principale l’anticomunismo e l’opposizione alla sinistra.

Un patrimonio di informazioni

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Più che un liberale in positivo, al di là della comunicazione e dell’approccio ottimistico, Berlusconi è stato un liberale in negativo, il cui obiettivo primario era quello di scongiurare la vittoria degli ex comunisti che avrebbero danneggiato, sul piano economico, sociale ed educativo, la maggioranza degli italiani. Se questa offerta rispetto all’elettorato italiano era molto efficace per vincere le elezioni, lo era molto meno per governare. Come spesso accade nel nostro paese ad una pars destruens efficacissima non è corrisposta una pars construens altrettanto importante.

Ciò ci conduce alla questione culturale, che nella storia politica di Berlusconi ha pesato più di quanto si possa credere. Berlusconi non ebbe soltanto una grande intuizione politica e mezzi enormi per realizzarla, ma anche un controllo della cultura popolare che è ancora oggi risulta fondamentale per la destra politica.

I programmi edonistici, vanesi e consumistici della sua televisione commerciale gli hanno garantito uno straordinario patrimonio di informazioni e conoscenza sulla mentalità e le preferenze degli italiani che le aziende di Berlusconi stesso hanno contribuito a realizzare.

Un conservatore occulto

Ciò ha permesso al centrodestra di entrare in profonda connessione con la cultura popolare del paese e con le inclinazioni e i sentimenti della maggioranza dei cittadini senza preoccuparsi troppo di cosa pensasse l’Italia colta.

Questo è un dato di fatto che il Berlusconi politico ha sempre rivendicato: gli italiani sono un popolo liberale che soffre gli indottrinamenti teorici imposti dalla classe dirigente, leggero e con voglia di divertirsi, concentrato sul lavoro, la casa e la famiglia, attento alla concretezza e alla quotidianità, alla cura del proprio “particulare”, molto più che alle grandi idealità o all’elaborazione di una moralità pubblica. Un popolo, in definitiva, che non vuole né deve essere corretto né rieducato, come chiedono invece intellettuali e politici di sinistra, ma che va bene così come è.

Nessuno come Berlusconi ha compreso, nel suo tempo, quella parte di Italia che rifiuta ogni attivismo politico, ogni indottrinamento nel linguaggio e nel costume, ogni organizzazione sovrimposta della cultura e vuole semplicemente lavorare, guadagnare, pagare meno tasse ed essere protetta dall’insicurezza, senza fronzoli morali, senza pretese di riformare sé stessa e senza eccessive ambizioni ideologiche, magari sotto la guida di un grande leader capace ed efficiente che si occupa di risolvere i problemi pratici.

Questo era il pacchetto culturale di Berlusconi, questo è il pacchetto culturale che oggi rende ancora così forte e radicata politicamente la destra pur senza che questa abbia il controllo delle “casematte del potere”, come scuole, università, burocrazie e realtà editoriali.

Per questo possiamo affermare che Berlusconi è stato un politico liberale – nei messaggi, nella retorica, nei comportamenti - ma alla prova del governo si è rivelato fondamentalmente un conservatore occulto. Mentre oggi, i suoi epigoni e alleati, governano da conservatori palesi.

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