Alla fine è dovuto tornare lui, Silvio Berlusconi, costretto a togliere i panni del padre nobile in corsa per il Quirinale e a infilare ancora una volta quelli del federatore capace di tenere insieme le litigiose forze del centrodestra.

Il disastro alle amministrative, con la sconfitta in tutte e cinque le grandi città al voto e altri disastri in centri minori ma significativi, ha disarticolato l’alleanza, con scontri sotterranei (e non solo) che hanno messo in discussione anche l’ultima delle poche certezze: la coalizione.

Il Cavaliere ha lasciato la villa di Arcore ed è tornato a Roma dopo otto mesi di assenza per far ragionare i due giovani leader in conflitto permanente, Matteo Salvini e Giorgia Meloni, ma anche per riportare ordine all’interno delle forze parlamentari di Forza Italia.

A ispirare la discesa romana non è stata solo la richiesta di un incontro chiarificatore da parte di Meloni, ma anche e soprattutto una lunga e cordiale telefonata con palazzo Chigi. Sarebbe stato infatti l’intervento del presidente del Consiglio, Mario Draghi, a suggerire a Berlusconi di fare un’operazione di bilanciamento delle forze in campo e pacificazione interna.

È stata troppo alta la tensione percepita nell’ultimo consiglio dei ministri: tanto da generare preoccupazione in Draghi, in vista del calendario fitto di complicazioni dei prossimi mesi, dal ripensamento di Quota 100 alle modifiche al reddito di cittadinanza. In attesa di arrivare al voto per il Quirinale.

A Berlusconi è bastato per capire che la sua presenza era necessaria. Così ha rispolverato i riti che sono stati il marchio di fabbrica del suo modo di fare politica: ha riunito i due alleati bizzosi intorno alla tavola imbandita di villa Grande, la sua nuova residenza sull’Appia antica dopo l’addio a palazzo Grazioli. E tra chiacchiere sulla famiglia, portate prelibate e qualche battuta sul calcio ha riannodato i fili dell’alleanza. Poi, ben conoscendo i caratteri dei due alleati, si è ritagliato venti minuti per parlare singolarmente con ciascuno: prima di pranzo con Salvini, dopo pranzo con Meloni. Al netto della convivialità, i nodi da sciogliere sono molti: i candidati civici scelti da Lega e Fratelli d’Italia hanno fallito malamente nei tentativi di conquista di Milano e Roma, dando una pessima immagine del centrodestra; il derby interno tra Meloni e Salvini è diventata una guerriglia e le posizioni tra i due sono sempre più distanti; manca una strategia condivisa sulle principali partite strategiche dei prossimi mesi.

Forza Italia a pezzi

L’esito dell’incontro è il migliore sperabile, almeno sulla carta. Foto sorridenti, comunicato congiunto cesellato fino all’ultima virgola e un’agenda condivisa basata su tre punti: cabina di regia e linea chiara per gestire la partita del Quirinale. «Indisponibilità a sostenere una legge elettorale proporzionale» e incontri con frequenza settimanale per «conciliare azioni parlamentari condivise».

Se i primi due punti sono chiari e raccontano della volontà, almeno a parole, di tenere in piedi l’alleanza che – secondo i sondaggi – supera il 40 per cento del consenso, il coordinamento a livello parlamentare è l’aspetto che contiene più incognite. Fratelli d’Italia è all’opposizione, dunque delle due l’una: o ci sarà un abbassamento dei toni nei confronti del governo, oppure saranno Lega e Forza Italia a inasprire le loro posizioni. Anche perché non viene chiarito quali siano le azioni parlamentari da intraprendere. L’incidente quindi è dietro l’angolo, dietro una pace di facciata e garantita non oltre l’elezione del prossimo capo dello stato.

Parallelamente al vertice di villa Grande, alla Camera si è consumato lo psicodramma di Forza Italia. Il modello di partito-azienda senza correnti interne, costruito sulla granitica fedeltà a Berlusconi, oggi ha mostrato di essere arrivato alla fine. Di più, ha aperto la strada alla diaspora della parte più moderata dei berlusconiani della prima ora. Quelli che non vogliono «morire leghisti», come riassume un deputato.

Il caso scatenante è stata l’elezione del successore del neo-presidente della Calabria Roberto Occhiuto a capo dei deputati azzurri. La poltrona è stata subito rivendicata dal coordinatore Antonio Tajani, che ha chiesto la nomina del filosovranista Paolo Barelli. A lui si sono opposti i tre ministri, in particolare Renato Brunetta e Mariastella Gelmini, che invece chiedevano un nome più vicino alla sensibilità del governo. Per tradizione, i gruppi azzurri nominano i capogruppo per acclamazione e senza votare, ma davanti al rifiuto di Tajani i ministri hanno raccolto le firme per chiedere una votazione esplicita e hanno presentato il loro candidato, Sestino Giacomoni.

Un livello di tensione mai raggiunto, moderato soltanto da una lettera formale di Berlusconi che indicava Barelli: Giacomoni si è ritirato (accontentandosi del ruolo di vice) e la nomina è andata in porto.

Tuttavia, la divisione non si è ricomposta e le conseguenze potrebbero essere estreme: durante il dibattito con i deputati, Gelmini ha parlato di «profondo disagio» ed è arrivata a dire che «l’ultima stagione del berlusconismo non mi rappresenta». Parole durissime, che preluderebbero a una riflessione su un addio. A riprova che, dietro i sorrisi di circostanza, il centrodestra è una bomba pronta a esplodere. E nemmeno il Cavaliere ha il potere di disinnescarla.

 

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