Quando gli si chiede cosa furono quei tre giorni di luglio del G8 di Genova qualche ricordo si fa impastato, ma non le parole né le ragioni di quel che accadde. In quel 2001, Fausto Bertinotti era il segretario di Rifondazione Comunista e a Genova era arrivato per partecipare al corteo dei sindacati.

A vent’anni di distanza, la metafora che sceglie per raccontare cosa è rimasto di quel movimento è quella del balzo della tigre di Walter Benjamin: Genova fu un tale momento di rottura per la sinistra che “ricordarla è una banalità inutile” e l’unica cosa che serve è “far rivivere quelle ragioni che a Genova non furono realizzate nell’attualità del conflitto di oggi”.

Quale è stata la novità che si è intravista a Genova, prima che venisse schiacciata dalla violenza?

A Genova si è prodotto il punto più alto di un movimento che da Seattle, passando per le capitali occidentali e orientali, aveva messo in discussione in modo radicale il pensiero unico sulla globalizzazione capitalistica. All’epoca, le classi dirigenti consideravano la globalizzazione come una cornucopia che avrebbe distribuito ricchezze e progresso scientifico e tecnologico a cascata. Erano gli albori della teoria “dello sgocciolamento”, che però non era ancora dichiarata. Ecco, contro questo pensiero unico sulla natura stessa della globalizzazione è nata una contestazione, soprattutto giovanile, ma che associava soggetti diversi. Era una novità straordinaria e fu uno spartiacque.

Era un movimento non più novecentesco?

A Genova assistemmo a una grande rottura rispetto al Novecento, che era stato il secolo del movimento operaio, con un chiaro centro tematico e anche una matrice politica. I movimenti che si raccolsero a Genova, invece, erano policentrici e si esprimevano fuori dalla guida dei partiti. Ci fu anche un elemento di continuità, però, con la ripresa della ragione principale del Novecento: l’idea della rivoluzione e della trasformazione radicale come obiettivo. I Social forum erano il luogo dove avveniva un fatto senza precedenti: i movimenti di tutto il mondo si riunivano per elaborare un pensiero diverso, che viveva nell’esperienza di massa e nel conflitto di strada, oltre che nelle assemblee.

Ma è rimasto qualcosa di quella stagione politica, oggi?

No, nulla. Genova è stato il punto più alto del passaggio di un’epoca dal punto di vista dei movimenti e del loro rapporto con la politica. Da quel punto così alto, si sono prodotte due enormi sconfitte della sinistra. Una fu quella bruciante della sinistra riformista, che lì si è persa: si è separata totalmente dai movimenti ed è stata sussunta nelle classi dirigenti della globalizzazione, diventando forza governativista. L’altra fu quella della sinistra radicale, che aveva provato ad immergersi nel movimento ma che non osò farlo del tutto.

Lei rappresentava proprio questa sinistra, si rimprovera qualche errore?

Rifondazione comunista fu l’unico partito che scelse e a cui venne consentito di sottoscrivere il manifesto di Porto Alegre: tentammo di stare nel movimento, non facendo prevalere una logica di partito. Eppure a vent’anni di distanza sento di portare una responsabilità: noi perdemmo perché non osammo ciò che sembrava impossibile, cioè aderire all’idea che – parafrasando Eduard Bernstein - “il movimento è tutto”. Avremmo potuto tentare di sciogliere il partito nel movimento, per provare a far nascere una nuova soggettività critica, anticapitalistica ma post-novecentesca. All’epoca questa possibilità non era nemmeno percepita e il rimprovero che muovo a me stesso è che non venne neanche discussa. Avremmo dovuto almeno tentare. Invece perdemmo l’occasione e anche tutto il resto.

Quindi con Genova la sinistra perde, per lasciare il posto a cosa?

Fino a Genova, lo scontro è tra i movimenti e la ristrutturazione capitalistica e ha un segno sociale, ecologico e di diritti. I movimenti non sono la sinistra novecentesca ma gli eredi rinnovati in un nuovo conflitto, che però si colloca nell’ordine classico dello scontro di potere e ha al centro il grande tema della democrazia partecipativa. Invece, la sconfitta della politica dopo Genova produce un effetto devastante anche sul movimento: da quel momento in poi il conflitto non riguarda più i diritti ma diventa prevalentemente quello tra il basso e l’alto della società. E’ anche su questo terreno che nascono i populismi che oggi conosciamo.

Eppure alcune delle istanze di quel Social forum stanno ritornando di attualità, per esempio quella ecologista.

Dissento. L’ecologismo di oggi non è parente di quello, si chiama solo allo stesso modo. L’ecologismo dei testi di Porto Alegre era fortemente anticapitalistico, quello di oggi è ristrutturazione industriale. Allora si metteva in discussione il rapporto tra uomo e natura e tra produzione e consumo, oggi non c’è nulla di tutto questo. Per dirla con Chico Mendes: “L’ecologismo senza lotta di classe è puro giardinaggio”.

Prima parlava di populismo. Con i dovuti distinguo, lei rivede qualcosa dell’anima di quel movimento in alcune delle istanze del Movimento 5 Stelle?

Certamente, ma con un elemento inquinante che ne ha snaturato il senso. Le battaglie No Tav, No Tap e alle grandi opere inquinanti come anche il reddito di cittadinanza sono in qualche modo figlie del movimento che si riunì a Genova, perché nascono dalla critica a un ordine esistente. Il punto essenziale che impedisce continuità, però, è che il Movimento sceglie di stare non con la giustizia ma con il giustizialismo, corrompendo ogni costruzione teorica con il populismo.

Nessun erede, dunque?

Anche se è sempre improprio parlare di eredi, io li vedo nei Black Lives Matter e in un certo senso anche nel MeeToo, perché entrambi i movimenti portano dentro essenzialmente una mozione critica all’ordine presente. Nel 2001 il G8 era il simbolo del potere costituito della globalizzazione e veniva contestato in radice. Oggi la forza propulsiva dei nuovi movimenti è simile, perché hanno intuito che, senza la forza del “contro”, esiste solo adagiamento al sistema.

A Genova, però, andò in scena anche una enorme violenza da parte delle forze dell’ordine. Fu quella a uccidere il movimento?

A Genova venne messa in atto una repressione gigantesca, che ebbe come effetti diretti la morte di Carlo Giuliani, le torture della Diaz e di Bolzaneto e i pestaggi durante le manifestazioni. Io credo che quella repressione sistemica venne ordita a livello internazionale, con le forze dell’ordine italiane che ne furono il braccio armato. Non penso a un complotto, ma a una strategia preordinata sì: si decise che l’ascesa dei movimenti di massa doveva essere schiantata e lo si mise in pratica. Ma queste forze sbagliarono i calcoli.

In realtà le forze che orchestrarono la repressione riuscirono nel loro intento.

Non del tutto. Puntavano a costringere il movimento in una spirale: repressione violenta che chiama risposta violenta che produce altra repressione. Invece il movimento reagì in modo sorprendente e qui sta l’errore di calcolo: non avevano capito che il movimento aveva incorporato la pratica pacifista e non violenta.

E questo come rileva?

Se le forze dell’ordine avessero agito in quel modo durante le manifestazioni della mia gioventù, negli anni caldi dal Sessantotto in poi, ci sarebbe stata una guerra civile e una strage. Invece a Genova la reazione fu opposta. La gigantesca manifestazione del primo giorno annunciò cosa sarebbe potuta essere Genova per noi, il giorno successivo alla repressione il movimento reagì pacificamente e nessun poliziotto venne aggredito. Oggi sembra scontato, allora era straordinario.

Eppure dopo quella violenza finisce tutto.

In realtà il movimento regge, anche se è scosso. Tanto è vero che pochi mesi dopo realizza con successo la manifestazione di Firenze e da una sua costola nasce il movimento pacifista che nel 2003 porta 110 milioni di persone nel mondo in piazza per la giornata internazionale per la pace. A non reggere è la politica e in particolare la sinistra riformista, che perde la sua ragione di esistere e subisce la mutazione genetica che la porta ad essere protagonista delle politiche di austerity, sulla scia del blairismo britannico.

Però la sinistra a Genova fallisce anche altro appuntamento: quello del sindacato, che sceglie di non esserci. Lei che è stato uomo della Cgil come lo spiega?

La Cgil commise un errore drammatico, perché scelse una posizione ambigua e addirittura si ritirò all’ultimo momento. Fino a poco prima di luglio il sindacato aveva tentato di capire il movimento, tanto che era stato presente ad alcuni dei passaggi cruciali come Porto Alegre e i forum sociali. L’alleanza, però, si spezzò per responsabilità del sindacato, che non resse il primato del movimento sull’organizzazione e la radicalità dell’impostazione capitalistica. Due aspetti che, se fossero stati accolti, avrebbero potuto segnare le premesse per qualcosa di davvero nuovo.

Il sindacato di sinistra non è in piazza, ma non è nemmeno radicato in quelle forze dell’ordine che calano i manganelli sulla folla e sui manifestanti che dormono alla Diaz. C’era la sensazione che la sinistra in quel mondo non avesse più presa?

Nel 2001 era finita da tempo la storia degli anticorpi di sinistra nelle forze dell’ordine. Negli anni Settanta la nascita del sindacato di polizia, l’ascesa del movimento operaio e di magistratura democratica aveva aperto alla speranza democratica dentro gli apparati dello stato, ma l’esperienza si era chiusa drammaticamente negli anni Ottanta. Da Napoli a Genova, riaffiora invece qualcosa di molto simile alla teoria del doppio stato.

Ovvero che dentro lo stato ci sia un ordine alternativo che supera quello democratico.

Per supporlo basta il campionario delle frasi usate dai torturatori della Diaz nei confronti dei torturati, soprattutto delle donne e dell’anziano disabile. Quegli insulti mettono in luce la cultura e anzi la fascistizzazione delle forze dell’ordine praticata in funzione della repressione. Non solo, mostrano anche che non si è mai realizzata una vera bonifica democratica tra quei ranghi: l’idea di fondo che guidava i manganelli era che, quando si è chiamati alla repressione, bisogna rispondere presente a un ordine che non è quello costituzionale, ma quello costituito. Aggiungo: questa stessa linea nera dentro le forze dell’ordine italiane che si vede a Genova arriva fino ai pestaggi nel carcere di Santa Maria Capua Vetere.

Genova è una ferita ancora aperta per la sinistra oppure quei fatti sono stati elaborati?

La metafora per Genova è quella del balzo di tigre di Walter Benjamin. Quel G8 è stato un evento di rottura che non si può ricordare o commemorare, perché significherebbe solo banalizzarlo. L’unica possibilità è quella di far rivivere la fiamma di quelle ragioni, portandole nell’attualità del conflitto di oggi. Mi spiego meglio: ragionare oggi su Genova significa stare nel picchetto dove l’operaio viene travolto dal tir o nei campi dove si lavora per tre euro l’ora e si muore sotto il sole. Stare lì con una ipotesi di contestazione radicale, che risalga l’intera catena del valore fino agli algoritmi di oggi: solo questo permette di capire cosa fu quel Social forum e anche di ragionare sugli errori di quella stagione. Ma farlo a freddo è impossibile. Peggio ancora sarebbe invece farlo con l’idea della memoria condivisa tra vittime e carnefici, che è la negazione della verità storica.

Lei parla di possibilità di far rivivere quella fiamma, ma è possibile spiegare ai ventenni di oggi cosa chiedeva chi aveva vent’anni nel 2001?

Non credo sia difficile. Basta spiegargli che nel 2001 un’intera generazione si ribellava contro l’ordine capitalistico globale, che era percepito come devastante per se stessi e per il mondo. Il concetto è universale e si palesa ciclicamente dall’antica Roma fino alla rivoluzione francese: quella di Genova era una rivolta, come oggi lo sono quelle che corrono da Algeri ai Gilet Gialli in Francia, dal Cile ai Black Lives Matter americani. Il concetto di fondo è sempre lo stesso e appartiene a ogni generazione: nella morte della politica e in assenza di una ipotesi di cambiamento radicale, il futuro vive nella rivolta.

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