Il leader socialista è stato molte cose: riformista, affabulatore, Ghino di Tacco che sfruttava le debolezze altrui. Tra agiografie improvvide e demonizzazioni mai finite, la sua lezione politica è ancora da studiare
Nella vita democratica non c’è niente di peggio del vuoto politico…», aveva cominciato il discorso più drammatico della sua vita. «Da un mio vecchio compagno e amico che aveva visto nella sua vita i drammi delle democrazie, ho imparato ad avere orrore del vuoto politico. Nel vuoto tutto si logora, si disgrega e si decompone». Era il 3 luglio 1992, intervenendo alla Camera Bettino Craxi stava per chiamare in correo l’intero sistema politico, innalzandosi, o rassegnandosi, al ruolo di capro espiatorio di quel sistema.
Siamo fermi a quell’epilogo, lo si vede anche in questi giorni di agiografie, di alte cariche dello stato contrite, in un pendolo di esaltazione e di demonizzazione che prosegue da venticinque anni, senza politica. In un quarto di secolo Craxi è stato a lungo il «capobanda che sembra un faraone» di De Gregori, poi il primo dei riformisti usato per giustificare le svolte di D’Alema e di Renzi, oggi con La Russa sulla sua tomba diventa un precursore della destra sovranista, lui che non aveva mai rinnegato il suo essere internazionalista e uomo di sinistra, antifascista e che, a proposito di tombe, quasi si fece sparare per portare fiori su quella di Allende. «Un paso mas y tiro», gli intimò la polizia di Pinochet.
Eppure, se si vuole restituire il fantasma di Hammamet alla storia repubblicana, vale la pena riprendere quel discorso dall’inizio. Dal rischio del vuoto, che Craxi aveva imparato da Pietro Nenni, testimone dell’ascesa del fascismo. Il vuoto che è arrivato dopo di lui e che lui aveva alimentato nella parte discendente della sua avventura politica e umana.
La corsa contro il tempo
Come in un film, l’intera parabola politica di Craxi appare segnata dal momento della fine. In bilico tra il potere, il sentimento di onnipotenza che si capovolge nell’opposto, l’impotenza, il ruggito di frustrazione, l’ansia di sopravvivenza, la devastazione. In cui si sovrappongono la grande riforma del sistema e la sua leadership prorompente, la sua vitalità, la voracità, la bulimia, e poi al contrario la «necrosi dei partiti» e quella del suo corpo fisico.
Una corsa sfrenata contro il tempo, come se ne avesse sempre avuto poco. Arrivato alla guida del Psi nel 1976 con il golpe generazionale dell’hotel Midas contro la vecchia guardia, nei corridoi circola la filastrocca del giurista Federico Mancini: «Noi compagni socialisti/ siamo stanchi e un poco tristi./ Tutto quanto rinnoviamo:/ Benny Craxi ci mettiamo». Per i democristiani è «l’Unno», per i comunisti è «un bandito politico di alto livello», appunta Tonino Tatò, il più vicino a Berlinguer. Eppure anche lui, almeno all’inizio, è animato da una grande ambizione. Rappresentare i ceti emergenti. I meriti e i bisogni. L’Italia della società adulta che non si fa più tenere per mano dai partiti mentre attraversa la strada, vuole farlo da sola.
La prima battaglia è ideologica. «Il Vangelo socialista», titola il direttore dell’Espresso Livio Zanetti. Dopo tanto girovagare il popolo socialista sembra aver finalmente trovato una buona novella e il suo messia, con il saggio su Proudhon pubblicato nell’estate 1978 dal settimanale, firmato da Craxi e scritto da Luciano Pellicani. I comunisti si infuriano, perfino Giorgio Napolitano: «Versioni incredibilmente semplificate e unilaterali dell’esperienza storica del movimento operaio». Non è una disputa tra scribi, è una dura battaglia di egemonia a sinistra. Ma il quarantenne segretario del Psi sa che un’idea è l’arma più dirompente. Si affida al circolo della rivista “Mondoperaio”, a gruppi di intellettuali con cui romperà fragorosamente.
La seconda ambizione è la riforma del sistema, anzi, la Grande Riforma. Craxi la lancia il 28 settembre 1979 in un editoriale su l’Avanti! sotto il titolo “Ottava legislatura”. Il capo del Psi sposta la crisi dai partiti alle istituzioni: «Quando tutto si riduce alla alchimia delle formule, alla manovra attorno alle combinazioni, alla lotta per un potere in gran parte corroso, paralizzato o male utilizzato, siamo ad un passo dal cretinismo parlamentare e a due passi dalla crisi delle istituzioni». Vecchia è la politica che non sta dietro i mutamenti della società, vecchi i politici, vecchie le istituzioni. E Craxi è il nuovo che liquida il vecchio, non accorgendosi di portare anche lui legna per il rogo dell’anti-politica che negli anni Novanta brucerà tutto. Anche perché la riforma delle istituzioni tanto evocata non arriverà mai.
Resta la riforma del partito, con il garofano alto quindici metri che l’architetto Filippo Panseca innalza sul Monte Pellegrino di Palermo e la costruzione del partito del Capo. E la rendita di posizione, o il potere di ricatto, alla Ghino di Tacco, che porta Craxi a palazzo Chigi, utilizzando le debolezze del sistema non più per cambiarlo, ma per blindarsi. La riforma si identifica con una persona, la riforma è lui, la sua voglia di conservare il potere. Intanto la politica smette di essere composizione di maggioranze, come aveva immaginato Moro, governando con il centrosinistra negli anni Sessanta come Craxi negli anni Ottanta, i due periodi di massima trasformazione del paese. La politica diventa frammento, rivendicazione di minoranze, impossibilità di rimetterle insieme. Difesa feroce degli interessi, corruzione.
La via del trasformismo
Il 1989 è il momento in cui girano le sliding doors craxiane. Al momento della caduta del Muro di Berlino, la spinta si è esaurita. Il 1990, il nuovo decennio, per Craxi, si apre con un malore di inizio anno che sa di presagio, «il segnale oscuro che la Fortuna non sostiene più il Principe», scrive Enrico Pozzi. Il leader che correva è diventato il custode dell’immobilismo, guida ormai un partito povero di voti e obeso di poltrone, carriere rapide, soldi sospetti, finanziamenti illeciti. Il 1992 arriva ben prima dei magistrati di Milano, ha cause tutte politiche. Quelle di cui scrive Rino Formica, sempre vicino al leader, in una lunga lettera personale datata 29 aprile 1992, oggi pubblicata nel ricchissimo libro di Andrea Spiri Lettere di fine Repubblica (Baldini+Castoldi), in cui attacca «l’assenza della produzione politica che avrebbe dovuto consentirci di intercettare i grandi spostamenti elettorali e assumere l’effettiva iniziativa politica, la sottomissione della morale a vantaggio delle carriere personali e dell’affarismo».
Nel libro di Spiri ci sono le lettere disperate e brutali che Craxi spedirà dalla casa di Hammamet dopo l’addio all’Italia agli ex amici, a Fedele Confalonieri, i suoi giudizi feroci su Vittorio Feltri («uno dei tanti bugiardi che ho incontrato lungo la mia strada»), lamenta «censure, manipolazioni di notizie, l’ostracismo che non verrebbe opposto neppure al peggiore dei criminali». Con Berlusconi è ancora più duro e amaro: «Il trattamento che in questi anni ho ricevuto dagli organi di informazione di tua proprietà è francamente difficile da descrivere. Salvo poche eccezioni la mia immagine è stata letteralmente cancellata. Più volte ho chiesto che un tuo incaricato politico avesse un contatto con me. Non ho mai avuto il piacere, salvo i millantatori».
La sua corsa è finita venticinque anni fa. Oggi in un campo santo, addossato a un vecchio forte spagnolo, dopo un piccolo all’ingresso c’è una scritta: «Qui in terra amica riposa Bettino Craxi». Tra la polvere, la sabbia, nomi dimenticati da secoli, la lapide che ricorda una ragazza italiana nata a Lampedusa nel 1861 e morta qui nel 1897, una famiglia di Senigallia negli anni Venti e Trenta, il loculo della famiglia Lamantia, accanto alla suocera, vedova Moncini, è sepolto Craxi, difficile dire se riposa in pace. Di certo non ha pace un paese rimasto senza riforme, incapace di fare i conti con la propria storia, abbandonato al vuoto in cui tutto si logora, si disgrega, si decompone.
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