L’ex Terzo polo è una polveriera, ma a breve rischia di diventarlo anche il Partito democratico. La ragione è, ancora una volta, Carlo Calenda. Il leader di Azione potrebbe, con un gran colpo di scena, tornare a rivolgersi alla sua casa politica d’origine, il Pd.

Calenda è attualmente impegnato nelle conseguenze del suo divorzio politico da Matteo Renzi: tra scambi velenosi e “furti” di parlamentari, i due ex alleati non si sono fatti mancare niente. L’ultimo capitolo della faida tra i due dovrebbe consumarsi lunedì, durante la riunione del gruppo di palazzo Madama.

Il rischio per Calenda è che Renzi decida di spaccare i gruppi, rendendosi autonomo con i suoi sei senatori. Alla Camera i deputati renziani non basterebbero per spezzare il legame con Azione, ma è molto plausibile che il presidente Lorenzo Fontana conceda una deroga per formare un gruppo con un numero inferiore al limite minimo stabilito (14), come ha già fatto in altri casi.

In ambienti renziani c’è ancora chi spinge per mediare, ma lo spazio di trattativa si fa sempre più ristretto. «A oggi direi che le possibilità stanno 70/30» dice un maggiorente del partito. Tradotto, la rottura è quasi certa.

La via legale

Forse anche per questo Calenda e i suoi stanno elaborando una linea difensiva cercando nelle pieghe dei regolamenti delle camere. Nello specifico nell’articolo 14 del regolamento del Senato che dice, in sintesi, che se c’è stata un’aggregazione di più partiti sotto un contrassegno che contiene più simboli si può costituire un solo gruppo purché la richiesta di costituzione sia accompagnata dall’assenso del soggetto che ha depositato il contrassegno.

Nel caso di Azione-Italia viva, il soggetto che ha depositato il contrassegno è Andrea Mazziotti, vicesegretario e coordinatore della segreteria di Azione. Insomma, secondo l’interpretazione dei calendiani è il simbolo a decidere quanti gruppi parlamentari è possibile formare, non il numero di liste associate nel contrassegno. Per uscire dal patto che unisce i due partiti, quindi, ci sarebbe bisogno – in base al comma 5 dello stesso articolo – di ben nove senatori (e Renzi non li ha).

Se il presidente del Senato Ignazio La Russa dovesse comunque concedere una deroga a Iv – è il ragionamento dei calendiani – sarebbe la prova che è in debito con Renzi. E questo dimostrerebbe che è stato l’ex premier, dopo le defezioni di Forza Italia, ha portare i voti necessari per eleggere l’esponente del FdI alla presidenza di palazzo Madama.

E mentre gli esperti verificano i dettagli legali, Calenda starebbe valutando anche la possibilità di riaprire un canale di dialogo con il Pd. Un’ipotesi complicata da trasformare in realtà. I contro sono tantissimi, ma l’idea non è stata affatto cestinata.

Al Nazareno è infatti arrivata Elly Schlein, segretaria che poco o nulla ha in comune con Calenda, ma che, proprio per questo, potrebbe offrire di più. Dal primo giorno Schlein deve gestire i malumori dei riformisti nel suo partito. Dopo gli addii di Beppe Fioroni, Andrea Marcucci e Caterina Chinnici e le polemiche dei cattodem raccontate da Domani, giovedì è arrivata la pesante lettera firmata su Repubblica dagli ex parlamentari Stefano Ceccanti, Enrico Morando e Giorgio Tonini. I tre riformisti hanno raccomandato alla segretaria di tenere maggiormente in considerazione l’ala moderata e ai loro ex colleghi di alzare la voce.

In un contesto così difficile, in cui sia Pd che Azione hanno visto diversi parlamentari traslocare in Italia viva, Calenda potrebbe proporre a Schlein di coprire quell’ala progressista che sta progressivamente abbandonando i dem.

Un allargamento che paradossalmente potrebbe aiutare la segretaria anche nel dialogo con Giuseppe Conte, che ultimamente sembra aver abbandonato le ambizioni di diventare punto di riferimento della sinistra radicale per imboccare una via più moderata. In questo schema farebbero molto comodo i buoni rapporti che Azione coltiva con due maggiorenti dei Cinque stelle come il capogruppo Stefano Patuanelli e la vicepresidente Alessandra Todde.

Certo, per il Pd quello di Calenda sarebbe un ritorno difficilissimo da digerire. Il leader di Azione, negli ultimi anni, è riuscito a farsi eleggere in Europa con il Pd, a lasciare il partito dopo l’alleanza con i Cinque stelle e rompere, nel giro di pochi giorni, un accordo elettorale stretto con Enrico Letta in vista delle elezioni.

Il leader in questo momento ha più da promettere, ponendosi come garante dei riformisti, che da offrire: Azione a livello parlamentare porterebbe in dote soltanto tre senatori e dieci deputati, dopo l’addio di Naike Gruppioni e con Giuseppe Castiglione dato anche lui in uscita.

La questione non è meno spinosa per Calenda stesso, che aveva detto che mai si sarebbe alleato con il Pd di Schlein. Trovare la narrazione giusta per giustificare l’ennesima inversione di rotta non sarebbe facile. Resta però il fatto che né Azione né Italia viva hanno la forza di affrontare in autonomia le elezioni europee del 2024: per i renziani la lista comune è il punto centrale della trattativa e guardando ai numeri si capisce perché.

Mentre Calenda è dato poco sotto la soglia di sbarramento del 5 per cento, ma ancora troppo lontano per stare sereno, Iv è addirittura sotto. Ieri Renzi ha incontrato i parlamentari a cui avrebbe detto che nessuno in Italia viva intende rompere con Azione, e che bisogna continuare a lavorare per il progetto unitario alle europee. Insomma, tutto dipende da Calenda. Sempre che l’ex ministro non sia già in procinto di approdare altrove.

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