Campo largo, serve un progetto. Ora a chiederlo è pure Conte

Il D day dell’alleanza di centrosinistra sarà sabato. Il giorno in cui deve arrivare non ancora un patto di sangue per l’unità, ma quantomeno il segno della volontà di camminare su una strada comune. Mai più passi indietro o di lato, basta scherzi. Sabato a Reggio Emilia, sul palco principale della Festa nazionale del Pd, è stato invitato Giuseppe Conte, ultimo e prestigioso di molti ospiti del «campo largo» (Nicola Fratoianni, Angelo Bonelli, Riccardo Magi, Maria Elena Boschi, Roberto Fico e Nichi Vendola) prima del comizio finale di Elly Schlein. A dibattere con lui la segretaria ha inviato Dario Franceschini: dirigente autorevolissimo e capo di AreaDem, corrente che l’ha sostenuta al congresso, e soprattutto storicamente il primo a indicare un destino comune «ineluttabile» fra Pd e M5s. Nel lontano 2019, in pieno governo gialloverde, è stato lui a iniziare a mettere sul piatto il tema del dialogo con Conte («prendendomi insolenze da parte di tutti», ricorda oggi con ironia, a insolentirlo c’erano anche quelli come Matteo Renzi che pochi mesi dopo hanno proposto a Conte il governo giallorosso). Poi è stato ministro del Conte II. Chi meglio di lui, insomma, per ricevere un impegno chiaro del leader del M5s con il Pd e gli altri alleati. Il M5s sforna candidati: Conte mette a frutto la linea unitaria di Schlein Non che ci siano dubbi, ormai. Il centrosinistra corre unito nelle regioni al voto in quest’autunno. «Abbiamo chiuso da tutte le parti con un’alleanza coesa e coerente a differenza del centrodestra che è ancora molto distante da quest’obiettivo», ripete in questi giorni a Reggio Emilia il responsabile organizzazione del partito, Igor Taruffi. Il programma di Conte Dubbi no, ma problemi ancora ce ne sono. E senza arrivare a dare ragione all’amarissimo Romano Prodi, per il quale «all’opposizione basterebbe esistere», dice molto quello che è successo mercoledì alla Camera nel voto sull’aumento delle spese Nato. Un dibattito chiesto da Avs per sfilare la coppa del pacifismo a M5s. La destra, spaccatissima, non è riuscita a scrivere un testo comune. Pd, M5s e Avs invece erano d’accordo sul no alla spesa al 5 per cento del Pil. Ma le opposizioni non hanno fatto una gran figura: cinque mozioni distinte e zeppe di passaggi considerati invotabili dagli uni o dagli altri. Avs e M5s si sono reciprocamente votati i testi ma non li hanno unificati. Solo il mutismo della maggioranza ha coperto l’immagine di una coalizione ancora impossibile. Con buona pace delle alleanze «coese» nelle regioni. Il Pd ha subìto la discussione cercando di far buon viso davanti ai cronisti. Ma la mancanza di coordinamento fra forze quasi alleate si sente. Al punto che adesso è persino Conte a chiedere un confronto sul programma. Un mezzo paradosso: bene le battaglie comuni, ma fin qui è stato proprio lui a non voler avvicinare troppo il Pd per non perdere i suoi elettori più radicali. Campo largo ma fragile: Conte e Schlein alle prese con la prova delle Marche Mercoledì, invece, si è tolto il gusto di dichiarare al Corriere della sera: «L’unità è la migliore condizione per vincere, però non può essere una semplice invocazione». L’allusione al «testardamente unitaria» di Schlein è chiara. E ancora: «Stando semplicemente uniti si vince, ma non si governa. Non basta arrivare a palazzo Chigi. Dobbiamo assicurare stabilità con un progetto serio, evitando un governo che si sfaldi poco dopo le elezioni come accadde con l’Unione di Prodi». Parole che hanno fatto storcere la bocca a mezzo Pd. Dal lato riformista la polemica è verso la segretaria: «L’abbiamo messo al centro del villaggio», sottinteso Conte, «e adesso lui sfrutta la posizione». E dal lato sinistro anche: «Adesso persino Conte chiede un tavolo». Ma come si fa? Fin qui Schlein ha spiegato di non avere intenzione di convocare «tavoli»: rischierebbero di fare emergere più le differenze che le convergenze. C’è poi la spina della premiership: anche se ormai la questione è appesa alla legge elettorale. Giorgia Meloni proverà a far passare una riforma che costringa le coalizioni a indicare il nome del premier. Ci vorranno le primarie, e saranno dolori. Ma si capirà nei prossimi mesi, forse l’anno prossimo. Nel frattempo il centrosinistra qualcosa deve inventarsi per essere percepito come una coalizione. «Siamo d’accordo sul 95 per cento delle cose da fare», minimizza Francesco Boccia, capogruppo al Senato. Sì, ma in quel 5 per cento residuo ci sono proprio i temi di politica estera che, non a caso, hanno fatto saltare i governi di centrosinistra a guida Prodi. Forza Italia rilancia il tormentone estivo dello Ius scholae. E anche Conte è pronto al dialogo La scelta a maggioranza Un bel problema: in un tavolo in cui il Pd dice sì all’invio di armi all’Ucraina, e M5s e Avs dicono no, come si fa a scrivere un “progetto serio”? «Serve un metodo», ragiona Fratoianni, «Pd, M5s e Avs hanno già sviluppato un alto tasso di convergenza. Abbiamo posizioni diverse solo su alcune scelte, ma non irrilevanti. La campagna elettorale può anche avere alcuni elementi di articolazione, succede anche alla destra. Ma è evidente che se ci candidiamo a governare questo paese, abbiamo l’obbligo di definire una modalità che, una volta al governo, di fronte a eventuali elementi di dissenso, consenta di decidere come si prende una strada piuttosto che un’altra. Può essere la maggioranza della coalizione: dentro la coalizione si fa un punto e si decide a maggioranza. Di certo dobbiamo stringere un vincolo di fronte al paese: andiamo al governo e non ci dividiamo perché siamo consapevoli che dobbiamo restituire speranza al paese. Ma è arrivato il momento». Conte no-riarmista ora sfida il Pd: «Rompa con Ursula»