Tra i molti temi affrontati dal generale Roberto Vannacci nel suo libro c’è anche l’emancipazione femminile. «La subdola propaganda anti-maternità intesa come schiavitù della donna» – scrive Vannacci, tra le altre cose – «ha sicuramente contribuito alla crisi della natalità pur non conseguendo quei tanto pubblicizzati obiettivi di emancipazione femminile». «Il risultato» - continua il militare – «è che le donne, per quanto lavorino non sono spesso contente e realizzate, che le situazioni di disagio minorile sono aumentate, che la natalità è incredibilmente diminuita». Il generale definisce come «moderne fattucchiere» le donne secondo cui «solo il lavoro e il guadagno possono liberare le fanciulle».

Al di là delle discutibili modalità espressive, la tesi sostenuta da Vannacci - il crollo della natalità sarebbe causato dal più elevato livello di istruzione e di occupazione delle donne – ha un qualche fondamento?

Istruzione, occupazione e natalità

La tesi del generale si rinviene nel libro di S. Mintz “The prime of life. A history of modern adulthood”, secondo cui «la crescita dell’importanza attribuita a una buona formazione universitaria fa sì che sempre più giovani ritardino il matrimonio o scelgano di non sposarsi». La conseguenza sarebbe una riduzione delle nascite. La stessa tesi ispira il rapporto dell’Ufficio dei revisori dei conti statali in Ungheria, che  mette in guardia rispetto all’istruzione femminile: un aumento delle donne laureate può causare la diminuzione del tasso di natalità. Le cose non stanno esattamente così.

Nonostante il consistente calo demografico in Italia si accompagni a un miglioramento del tasso di istruzione, specie delle donne, il ruolo causale della scolarizzazione nella riduzione delle nascite appare dubbio. Basterebbe rilevare che l’Italia è fra gli ultimi Stati in Europa per livello di istruzione - il 62,7% dei 25-64enni ha almeno un titolo di studio secondario superiore, contro il 79,3% della media dell’Unione europea, l’84,8% della Germania e l’82,2% della Francia - e al contempo è tra i paesi ove si fanno meno figli. In Italia, infatti, si hanno 1,25 nascite per donna, dato superiore solo alla Spagna (1,19) e a Malta (1,13). Già solo questo potrebbe smontare quanto afferma Vannacci circa il collegamento fra maggiore istruzione e riduzione della natalità. Ma andiamo oltre.

Analisi basate sui dati dell’Eurobarometro evidenziano che la quota di donne più istruite in paesi europei è positivamente associata all’intenzione di mettere al mondo un figlio. In altre parole, «esiste una relazione positiva tra tasso di occupazione femminile e tasso di fecondità totale». Ad esempio, in Italia e Francia le donne con un titolo universitario o equivalente mostrano una maggiore inclinazione ad avere un secondo figlio rispetto a quelle solo con titolo di studio secondario.

Dunque, sostenere che la propensione delle donne al lavoro e alla carriera comporti un minore tasso di natalità, come afferma il generale Vannacci, significa non conoscere gli ultimi studi sul tema. La correlazione negativa tra tassi di occupazione femminile e tasso di fertilità, esistente fino ai primi anni ’80, ha subito un’inversione di segno nei primi anni del 2000 quando, a un maggior impiego delle donne, hanno cominciato a corrispondere livelli di natalità più elevati. L’impatto negativo dell’istruzione sulla fecondità si è indebolito sino a sparire e poi invertirsi. Questa inversione viene da molti ricondotta al rafforzamento dei sistemi di welfare a supporto delle madri lavoratrici, che avrebbe contribuito alla riduzione dell’incompatibilità tra maternità e carriera.

Lavoro femminile e supporto per i figli

Il welfare, cioè le politiche a sostegno della famiglia (contribuzione ai costi inerenti alla cura dei figli, offerta di strutture pubbliche per la cura dell’infanzia, sgravi fiscali ecc.), e non un più basso livello di istruzione, è ciò che favorisce sia l’impiego femminile sia la propensione alla natalità. Lo dimostrano i dati inerenti a Stati nei quali il welfare è più sviluppato e le donne con tre o più bambini lavorano più di quelle italiane con un solo figlio, data la carenza di supporti nel nostro paese.

«Negli Stati dove vigono politiche più generose a favore delle donne lavoratrici (come nel Nord Europa) entrambi i tassi di fecondità e di partecipazione femminile al mercato del lavoro sono elevati; al contrario nei paesi con sistemi di welfare meno generosi (quali quelli del Sud Europa) entrambi i tassi hanno raggiunto livelli molto bassi».

Quanto osservato in sede Ue trova conferma anche nella nostra realtà nazionale: nelle regioni del nord Italia, ove l’occupazione femminile è maggiore poiché agevolata da una più ampia copertura di strutture per l’infanzia, si riscontrano altresì livelli di fecondità più elevati. Per le giovani coppie la solidità economica, per lo più legata al doppio reddito, e la conseguente stabilità sono condizioni necessarie per la scelta della genitorialità.

D’altro canto, se in Italia è più facile tornare al lavoro dopo la nascita di un figlio «per le donne istruite», che guadagnano di più perché fanno lavori migliori e «che vivono dove ci sono opportunità di childcare», appare evidente che l’istruzione, unitamente al sostegno per l’infanzia, può favorire la maternità. E non l’opposto come sostiene Vannacci. Ma evidentemente tutte queste argomentazioni non interessano al generale, dato che nel suo libro scrive che si può fare a meno dei servizi per l’infanzia, perché soprattutto la madre dovrebbe prendersi cura della prole, in ossequio al modello di famiglia tradizionale.

Eppure, per contrastare le sue idee sarebbe bastata un’unica considerazione: la libertà “culturale” che il genere femminile ha acquisito nei secoli soprattutto attraverso l’istruzione non può essere compressa, per nessun motivo. E l’idea che tale emancipazione sia solo l’effetto di “fattucchiere” che fanno il lavaggio del cervello alle donne appare svilente per le capacità intellettive di queste ultime. Peccato che Vannacci non se ne renda conto.

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