L’arma detenuta per «difesa personale» dal deputato di FdI Emanuele Pozzolo, che non se n’è separato nemmeno al veglione di Capodanno organizzato dal sottosegretario Andrea Delmastro, potrebbe essere entrata anche alla Camera, e non una volta sola. Per fortuna, è il caso di dire, se anche l’aveva con sé non ha ritenuto opportuno mostrarla, come avrebbe fatto secondo i testimoni alla festa, finita con il ferimento del genero di un membro della scorta di Delmastro.

Giovedì Pozzolo è stato deferito ai probiviri di Fratelli d’Italia da Giorgia Meloni, ma il dubbio se si sia separato dalla sua arma a Montecitorio rimane. La ragione sta in una zona grigia della normativa: il regolamento della Camera infatti vieta l’ingresso di armi, ma la Costituzione prevede all’articolo 68 che nessun deputato possa essere perquisito senza l’autorizzazione della camera d’appartenenza.

La ragione sta nella tutela dell’indipendenza del mandato parlamentare: oltre all’insindacabilità delle sue opinioni, il parlamentare gode di immunità penale a meno che la camera non abbia autorizzato il provvedimento, si tratti dell’esecuzione di una sentenza penale irrevocabile o sia colto in flagranza di delitto. La Costituzione prevale sul regolamento dei due rami parlamentari, e il risultato è che i parlamentari, di fatto, non vengono controllati.

Oltre alla questione normativa e al cambiamento nella percezione dell’incarico, infatti, ce n’è anche una pratica: mentre gli esterni vengono controllati all’ingresso di Montecitorio dovendo passare sotto il metal detector e facendo controllare le borse, per i deputati il metal detector non è obbligatorio. Anche se, in base alla legge, se pure lo strumento rilevasse la presenza di un’arma, nessuno potrebbe mettere mano addosso al parlamentare per togliergliela.

I timori di Pozzolo

Una circostanza analoga, anche se speculare, si verifica al Senato, dove si passa sotto il metal detector ma le borse non vengono controllate: in ogni caso, comunque, il parlamentare rimane intangibile. Insomma, se anche negli anni si è cercato di porre un freno alla possibilità di introdurre oggetti alieni all’attività parlamentare com’è successo in passato – in aula si sono viste spigole sventolate tra i banchi, bottiglie di spumante stappate e mortadella divorata – gli strumenti di difesa personale supererebbero abbastanza facilmente la soglia di Camera e Senato. Senza considerare poi il fatto che un deputato di FdI, esponente della maggioranza che sostiene un governo per cui la sicurezza dei propri cittadini è, almeno a parole, al primo posto, si sente così insicuro – per «minacce dall’Iran» – da richiedere un porto d’armi speciale. Se la sua insicurezza è stata tanta da portarsi la pistola perfino a una festa, non c’è ragione di escludere che possa averla portata anche in parlamento.

Anche i parlamentari del Pd sono giunti alla stessa conclusione, e hanno intenzione di chiedere chiarimenti al presidente della Camera Lorenzo Fontana per capire se possano essersi trovati in aula con un collega armato. Difficile che se ne possa avere certezza in un senso o nell’altro, ma in un ring politico in cui le tensioni non mancano e le risse sono all’ordine del giorno di certo non si tratta di un pensiero rassicurante.

Anche perché il parlamento anche per una persona minacciata dovrebbe rappresentare un luogo tecnicamente sicuro, visto che il presidio è affidato alle forze dell’ordine, che però a loro volta devono lasciare le armi d’ordinanza quando entrano nel palazzo, fatti salvi alcuni rarissimi casi in cui ci sia una ragione per cui siano autorizzate per esigenze di sicurezza intra moenia.

Per loro, sono previsti dei sistemi di deposito che permettono di conservare l’arma in maniera sicura sotto la tutela della polizia: luoghi di cui al bisogno potrebbero fare uso anche i deputati, anche se si tratta di una circostanza che non si è mai verificata. Eppure, se armarsi diventasse come nel caso di Pozzolo una scelta necessaria in un paese che gli stessi esponenti di maggioranza considerano deficitario dal punto di vista della sicurezza, sarebbe opportuno iniziare a ragionare di un adeguamento dell’organizzazione della Camera.

A meno di sorprese nel caso Pozzolo, l’unico precedente noto di armi consapevolmente introdotte alla Camera resta infatti per il momento quello di Yasser Arafat e della sua scorta. Era il 1982, il leader dell’Olp fu invitato da Giulio Andreotti, all’epoca presidente della commissione Esteri: lo staff della Camera si confrontò direttamente con quello dell’ospite palestinese e una lunga trattativa si risolse in uno stallo, visto che la scorta di Arafat non voleva rinunciare ai propri protocolli di sicurezza. Per permettere al leader palestinese di fare il suo intervento in occasione dell’assemblea interparlamentare ci fu perfino bisogno della garanzia dello stesso Andreotti, che assicurò che Arafat non avrebbe sparato. Il discorso alla fine andò nella direzione auspicata da Andreotti, una posizione aperturista sul dialogo in Medio Oriente, ma dalla sua rivoltella Arafat non si separò neanche in quell’occasione.

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