L’ondata di contagi intorno al milione al giorno che ha interessato la Cina a seguito della revoca della zero covid policy, rappresenta un problema tanto domestico quanto internazionale.

Il malcontento per la linea del governo cinese è diffuso fuori e dentro i confini nazionali: da un lato, l’improvviso annuncio della riapertura delle frontiere ai viaggiatori esteri cozza evidentemente con la rigidità ingiustificata delle restrizioni appena revocate e, dall’altro, la mancanza di trasparenza su contagi e ricoveri rende complesso per l’Oms e la comunità internazionale valutare l’impatto sanitario delle decisioni di Pechino.

Il fallimento della campagna vaccinale

Il problema nasce all’interno della Cina. Alle restrizioni estremamente rigide e ai continui test di massa imposti dalla discussa zero covid policy non è stata, infatti, accompagnata una campagna vaccinale capillare ed efficace.

Il fallimento delle autorità rivela oggi i suoi effetti nefasti: all’apertura concessa ad una popolazione stremata sono seguiti contagi praticamente incontrollati che premono sul sistema sanitario cinese, costretto ad adottare soluzioni d’emergenza come la somministrazione delle terapie in modalità drive-through.

I motivi del fallimento della campagna vaccinale sono molteplici. Innanzitutto, va tenuto in considerazione il problema amministrativo: i dati geografici e demografici elefantiaci del paese rendono sicuramente complessa l’esecuzione di una campagna capillare, soprattutto nelle zone rurali distanti dai centri della ultramoderna Cina delle metropoli. Inoltre, tra gli 8 vaccini approvati in Cina, nessuno è un farmaco a mRNA, il tipo di medicinale dimostratosi più efficace nella prevenzione del contagio.

Il governo cinese ha consentito la somministrazione dei soli vaccini sviluppati a livello domestico escludendo l’importazione dei vaccini a mRNA prodotti all’estero.

Oltre alle evidenti conseguenze negative sul contenimento della malattia, il “nazionalismo vaccinale” ha influito anche sulla predisposizione dei cittadini cinesi a ricevere le dosi necessarie all’immunità.

Uno studio statistico dal taglio programmatico condotto in Cina nel 2020 conferma la predilezione della popolazione per i vaccini importati, probabilmente a causa della serie di scandali che hanno negli anni colpito l’industria vaccinale domestica con una significativa riduzione nella fiducia del pubblico.

Il popolo cinese è consapevole dei limiti del proprio sistema farmaceutico e sanitario, come dimostrato dalla preferenza, dettata dalle difficoltà nel ricevere più di una dose, degli abitanti delle zone rurali per vaccini con copertura più duratura ed efficacia minore. L’assenza di capillarità è stato, infatti, il principale problema della politica vaccinale di Pechino.

Gli ostacoli alla governance

La stessa capillarità è mancata alla Repubblica Popolare nel monitoraggio dei contagi: sui social cinesi, infiammati dalla delusione per i recenti sviluppi, circolano i nomi delle città di Baoding e Dazhou, ufficialmente libere da contagi ma di fatto infestate dal covid e senza adeguate scorte di medicinali.

Il sospetto che il governo stia nascondendo i dati reali per provare a salvare la faccia è concreto: Pechino dichiara circa 60mila casi sintomatici con appena otto morti nei 20 giorni successivi alle aperture a fronte delle stime internazionali prossime ai 250milioni di nuovi casi emersi nello stesso periodo di tempo. Ad aggravare la sfiducia la decisione di non comunicare all’Oms i dati su contagi e ricoveri, impedendo la tempestività e l’efficacia dello sforzo anti-pandemico internazionale.

La mancanza di trasparenza assesta così un duro colpo alla governance sanitaria globale, soprattutto se si considerano il numero dei cittadini cinesi e il loro comprensibile desiderio di ritornare a viaggiare.

Molti paesi, tra cui Italia, Stati Uniti, Giappone e Repubblica di Cina (Taiwan), corrono ai ripari imponendo l’obbligo di tampone per i viaggiatori cinesi, dopo due anni considerati di nuovo i principali vettori del virus.

La frustrazione internazionale è ben tradotta dalle polemiche su WeChat, il social nazionale, i cui utenti lamentano il doppio standard nel giudizio da parte del partito comunista sulle misure preventive al confine, «precauzionali» se imposte da Pechino, «discriminatorie» se stabilite da altri paesi.

Il pericolo varianti

A preoccupare Oms e governi di tutto il mondo è il pericolo varianti: all’incremento dei casi può corrispondere un aumento delle mutazioni che, diffondendosi oltre i confini degli stati, possono provocare focolai di varianti contro cui gli attuali vaccini potrebbero risultare poco efficaci. I costi sanitari, sociali ed economici di una diffusione su larga scala di nuove varianti spaventano, mentre i cinesi (e non solo) subiscono il peso delle politiche di un governo che fatica a rispondere alle esigenze dei propri cittadini.

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