«Berlusconi al governo con noi non esiste». Il primo a soffocare sul nascere l’apertura rivolta a Forza Italia da parte del governo giallorosso è stato il viceministro allo Sviluppo economico Stefano Buffagni in un post su Facebook mercoledì sera. Giovedì mattina è arrivata la pietra tombale, firmata dall’ex capo politico Luigi Di Maio che ha pubblicato lo screenshot di un titolo del Mattino risalente alla formazione del governo Conte I: «Berlusconi chiama, Di Maio si nega al telefono». Sopra, lapidario, il commento del ministro degli Esteri: «Era così allora, è così oggi».

Sembra la fine del difficile esercizio di equilibrismo di Di Maio che solo qualche giorno prima aveva detto in un’intervista a Repubblica: «Sono sempre stato un promotore del dialogo con le opposizioni e continuo a esserlo». Una risposta che lasciava una speranza ai mediatori giallorossi che stanno lavorando in vista di mercoledì quando al Senato si voterà un nuovo scostamento di bilancio da sette miliardi. I numeri della maggioranza sono sempre più ridotti e il sostegno di Forza Italia può rassicurare il governo.

Certo, i voti di Berlusconi hanno un prezzo. E dopo l’approvazione della dibattuta norma “salva Mediaset”, la prossima contropartita potrebbe essere un relatore di Forza Italia per la legge di Bilancio. Non si tratta di un tecnicismo parlamentare, perché in un contesto in cui le scadenze sono così ravvicinate chi ha in mano la situazione ha un potere anche maggiore degli altri anni. Il relatore infatti può presentare emendamenti al testo in ogni momento, quindi di fatto Forza Italia parteciperebbe alla stesura della legge. L’iter, tra i più veloci della storia della Repubblica, inizia la prossima settimana e l’ok alla Camera deve arrivare entro Natale per consentire un passaggio lampo al Senato.

Scontenti e possibilisti

Ma per qualcuno il prezzo fissato dai berlusconiani è troppo alto. Al Senato Barbara Lezzi, da sempre vicina ad Alessandro Di Battista, non è morbida: «Non vorrei si approfittasse dell’emergenza Covid-19 e dei conseguenti problemi sui numeri per usarli come scusa per una scelta del tutto indigeribile per gli elettori». Il messaggio ai vertici è chiaro: «Non voglio credere che il Movimento arrivi a tollerare una scelta che indebolirebbe così tanto la sua credibilità». E Lezzi non è sola. A palazzo Madama nessuno dei grillini vuol vedere il proprio nome associato a un via libera all’allargamento della maggioranza. Tutti ribadiscono che la norma Mediaset approvata nei giorni scorsi non rappresenta in nessuna misura un ramoscello d’ulivo sventolato in direzione Arcore. Tra i rigoristi vengono accreditati accanto anche Giovanni Endrizzi e la campana Luisa Angrisani. Ma sono in parecchi a essere scontenti della gestione più recente, come dimostra anche lo scarso entusiasmo che ha circondato gli Stati generali (di cui tra l’altro continua a latitare il documento di sintesi promesso da Vito Crimi).

C’è però chi trova ragioni per non chiudere definitivamente. Dopo aver ribadito la lontananza siderale tra i principi fondativi del Movimento e la linea di Forza Italia, alcuni confessano che, dopo Lega e Pd, un’ulteriore alleanza non farebbe più la differenza. «In fondo, le persone non sono tutte migliori o peggiori solo perché appartengono a un certo partito». Altri rimandano alla delicatezza del momento, in cui il sostegno serve, e dicono che «Forza Italia non è più quella degli anni Novanta».

Ma il danno d’immagine sarebbe irreparabile. Di questo è convinto una parte del gruppo del M5s alla Camera, dove soprattutto tra i millennial la tensione è tangibile. Sarebbero dieci o venti i deputati che apertamente valutano di dire addio al Movimento nel momento in cui cadesse il tabù di una trattativa con Berlusconi. Tra i più irrequieti vengono citati Elisa Siragusa, Antonio Lombardo e Fabio Berardini, coinvolto con i colleghi Carlo Ugo De Girolamo e Paolo Romano, anche loro da tempo scontenti, in una disputa sulle rendicontazioni con Davide Casaleggio. È data in uscita poi Guia Termini, critica nei giorni scorsi con i vertici ma anche con Alessandro Di Battista, che ha definito «egocentrico cronico». Manca per ora la regia che offra alle anime in crisi del Movimento un’alternativa concreta e, almeno per il momento, anche Di Battista non si vuole caricare di quest’onere. Allargare la maggioranza a Forza Italia «sarebbe controproducente per il governo» dice il deputato pugliese Giovanni Vianello. Il rischio infatti è quello di moltiplicare le occasioni di scontro con i Cinque stelle che già su tantissimi temi hanno difficoltà a coordinarsi con Italia viva, figurarsi con i forzisti.

Insomma, il rischio di essere ricordato come colui che ha aperto le porte della maggioranza anche a Berlusconi, Di Maio non lo vuole correre. E quindi, qualche ora dopo Buffagni, ha deciso di rispolverare tutto il repertorio più duro e puro del Movimento: oltre al no a Forza Italia, sui social nel corso della giornata è apparso anche un nuovo appello a revocare la concessione ai Benetton, una questione un tempo cavallo di battaglia di Danilo Toninelli e ancora non risolta dalla ministra Paola De Micheli, collega del Pd, l’alleato che oggi ha anche voluto che Stefano Patuanelli, titolare del dicastero dello Sviluppo economico, si intestasse la norma salva Mediaset. Le contraddizioni sono tante e il Movimento continua a rivendicare una purezza ormai difficilmente difendibile.

 

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