Il 23 marzo 2002, vent’anni fa domani, per tanti fu un giorno storico. Al Circo Massimo di Roma in tre milioni dicono no alla cancellazione dell’art.18 dello statuto dei lavoratori tentata dal governo Berlusconi. A convocarli è la sola Cgil di Sergio Cofferati. Un mese prima erano nati i “girotondi”. Segretario dei Ds è Piero Fassino. Bruno Trentin scrive nei suoi diari: «È un momento di svolta».

Oggi Cofferati è un ex eurodeputato, vive a Genova, e ricorda quei giorni con un po’ di emozione. Ma ha la fama di uomo riservato, dinanzi a lui non usiamo né il termine «nostalgia» e né la formula «grande occasione sprecata». 

Sergio Cofferati, fu un oceanico no a un progetto del governo Berlusconi. Fu davvero la più grande manifestazione sindacale italiana?

Direi di sì, forse qualche manifestazione del primo dopoguerra fu grande, ma non così. Il governo non era solo, anche il presidente di Confindustria Antonio D’Amato teneva da matti a cancellare l’art.18. Dove non riuscì il centrodestra, riuscì poi il centrosinistra.

Non salti subito alle conclusioni. Intanto quel giorno lei tenne tutti i leader della sinistra giù dal palco.

Sul palco c’era solo Nicola Piovani, che suonava il piano. E Pietro Ingrao. Volevo far salire anche Sabrina Ferilli, ma soffriva di vertigini. La portai al bar e feci la felicità di Domenico, il barista della Cgil.

L’anno dopo ci fu il referendum di Fiom e Prc per estendere l’art.18 alle aziende con meno di 15 addetti. Ma la Cgil non era d’accordo. Era troppo per voi?

No. La Cgil aveva raccolto sei milioni di firme su una legge di iniziativa popolare che estendeva i contenuti dello Statuto dei lavoratori del 1970 ad alcune tipologie nuove di lavoro. Vedevamo il cambiamento in atto, avevamo varato una nuova struttura sindacale, il Nidil, Nuove identità del lavoro. Puntavamo su una riforma, il referendum non risolveva il grande tema delle nuove precarietà. Anche perché la forza dell’art.18 era l’effetto-deterrenza. Replicavamo a chi diceva che veniva usato poco proprio questo: la norma scoraggiava le imprese ad agire discrezionalmente.

Eravate davvero tre milioni? La questura disse 700mila.

Sì. I conti li avevamo fatti: le persone arrivate a Roma con i treni, i pullman e le navi prenotate da noi erano più di 950mila. Poi c’erano quelli del centro Italia, toscani, umbri, marchigiani, a cui abbiamo chiesto di venire con i loro mezzi. Molti autobus furono prenotati dalle zone di confine, in Italia non se ne trovavano più. Poi c’erano i romani, un fiume.

Da lì costruite un muro a difesa dell’art.18. Che dura 15 anni.

Da subito una parte del governo Berlusconi capisce che è meglio non insistere. Anche perché prendeva corpo la straordinaria idea di Jacques Delors, cioè che nella globalizzazione la capacità di competere andava cercata non riducendo i diritti e i costi del lavoro, strada in cui la parte sviluppata del mondo aveva già perso rispetto ai paesi più poveri, ma nella conoscenza, nella ricerca, nell’innovazione, nella qualità del prodotto che metti sul mercato. Una visione che a sinistra non ebbe il riconoscimento che meritava. Quando Delors scrive queste cose la maggioranza dei governi europei è di centrosinistra, ma imbocca un’altra strada: la Terza via di Blair.Che non negava l’innovazione, ma intanto toglieva diritti al lavoro.

Inizia lo sgretolamento del muro. Il jobs act di Renzi del 2016 è ultima picconata?

Renzi si intesta la cancellazione dell’art.18, ma il primo restringimento avviene con il governo Monti. La ministra del Lavoro Elsa Fornero fa cambiamenti rilevanti nelle regole del mercato del lavoro, compreso l’art.18. Allarga la deroga a nuove tipologie, per esempio la crisi di un’azienda.

La crisi di un’azienda non giustifica un licenziamento?

In genere no. Vai in crisi perché il tuo prodotto non va bene? Il problema è il prodotto che hai messo sul mercato, difficile che lo sia quelli che lo fanno. Poi se un’azienda chiude, manda a casa tutti. Che c’entra la giusta causa per uno o due?

Con Monti, al Pd c’è Bersani. Insomma, c’è un Pd “di sinistra”.

Nella sinistra riformista l’idea delle protezioni era storica, nel 1970 il Pci si astiene sullo Statuto dei lavoratori perché chiede di più. Negli anni di Monti si consuma la svolta: nella percezione dei gruppi dirigenti si diffonde la convinzione che i diritti non si possono difendere, non troppo almeno. Dopo sono arrivati alcuni ripensamenti. Ma troppo tardi.

Prima ancora il primo scontro sulla flessibilità è con D'Alema, alla fine degli anni 90.

Era già la traduzione in italiano delle suggestioni blairiane.

Dopo Monti, ancora nell’estate del 2015 Renzi è contrario a toccare l’art.18. Poi si racconta di un incontro con Mario Draghi. Renzi cambia idea. Secondo lei perché?

Non lo so. Ma la libertà di licenziare è un tassello del jobs act, che introduce l’idea che la flessibilità e la riduzione dei diritti, e del potere di difesa del sindacato, sia fondamentale per ridare competitività alle imprese. Presto si vede che così non è.

In Europa però contro il licenziamento non c’erano protezioni paragonabili.

Quando lo statuto dei lavoratori è stato varato, le condizioni del lavoro in Italia erano peggiori di quelle di altri paesi. Riusciamo ad avere il boom economico perché il riconoscimento dei diritti - dalle donne ai minori, chapeau a chi l’ha pensato e votato - riduce il conflitto, che nel ‘68 e nel ‘69 era stato durissimo, e lo riporta a fisiologia.

Alla fine però lei finisce nello stesso partito di Renzi.

Me ne sono andato in fretta.

Il sindacato, all’epoca la segretaria era Susanna Camusso, si batté a sufficienza contro il jobs act?

Le reazioni dell’epoca furono molto contenute. Ma non credo ci fossero le condizioni per fare diversamente. Purtroppo.

La manifestazione del 2002 è anche contro il terrorismo. Il 19 marzo, pochi giorni prima, viene ucciso il giuslavorista Marco Biagi. Alcuni esponenti delle destre indicano in lei il “mandante morale” per via della sua critica al Libro Bianco, di cui Biagi è uno degli autori. Anni dopo la Corte europea le dà ragione contro le diffamazioni. Come visse quella drammatica polemica?

Fu un attacco strumentale al sindacato. Alla conferenza programmatica della Cgil avevo definito il Libro bianco un testo «limaccioso». Era ovviamente un giudizio politico. L’uso di quella parola veniva da una poesia di Mario Luzi, che avevo pronunciato poco prima, tratto dal viaggio terrestre e celeste di Simone Martini, parlava delle acque di un fiume. Intorno a questa parola, limaccioso, ci fu chi costruì il teorema della mia presunta minaccia al povero professore Biagi.

Si è mai chiarito con la famiglia Biagi?

Ho sempre avuto il massimo rispetto di quel dolore, non ho mai voluto forzare in nessun modo.

A settembre del 2002 lei finisce il mandato alla segreteria Cgil. Siamo ancora in pieno clima girotondino. Tutti la guardano come futuro leader della sinistra, in primis il Correntone della sinistra Ds. E invece lei torna a lavorare in Pirelli. E dopo due anni accetta di fare il sindaco di Bologna. Le è mancato il coraggio?

Guardi, al di là di quello che scrivevano i giornali, uno spazio vero nei Ds per me non c’era. Non votavano gli elettori, votavano i dirigenti. Nel gruppo dirigente sarei stato in minoranza e avrei disperso anche il patrimonio di credibilità del sindacato. Mi offrirono l’elezione alla camera alle suppletive di Pisa, e poi un seggio alle europee. Ma dissi no. Due anni dopo i compagni di Bologna mi chiesero di guidare la riconquista del comune, perso in malo modo. Sarebbe stata una battaglia anche simbolica per tutto il paese. Ho accettato.

Oggi quella dell’art.18 è storia morta e sepolta?

Non credo, l’estensione dei diritti di alcuni lavori sarà necessariamente riconsiderata. Partendo dallo sfruttamento degli stranieri nel lavoro agricolo, dai nuovi lavori come i rider, dallo smart working e i lavori legati all’informatica. Oggi c’è un problema enorme sulla quantità del lavoro disponibile. La pandemia ha accentuato la tendenza alla caduta, appena attenuata da una crescita di lavoro precario, non stabile. La guerra, una guerra vergognosa, farà il resto. Serve un’idea di modello di sviluppo nel quale i fondamentali cambiano: bisogna spingere l’innovazione usando meno e diversamente alcune materie prime. Il tema lavoro deve essere considerato dai governi europei la priorità assoluta alla quale destinare sia le risorse del Pnrr che la costruzione di un nuovo modello.

La discussione fra governo Draghi e sindacato è all’altezza della crisi?

La discussione va fatta in Europa, poi nei governi, poi con le rappresentanze sociali. Deve essere un modello di ricerca comune. Ma la risposta è no. I sindacati sono in una situazione oggettivamente difficile perché scontano il fatto che la loro rappresentanza a livello europeo non ha potere. E in Italia le scelte del governo sul Pnrr sono ancora troppo generiche.

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