I dati divulgati venerdì dall’Istituto Superiore di Sanità indicano che l’epidemia attraversa una fase stagnante. L’incidenza settimanale è stabile da tre settimane intorno a 135 nuove infezioni ogni 100 000 abitanti, ben al di sopra della soglia di 50 che permetterebbe un’efficace attività di tracciamento dei contatti. L’indice di riproduzione netto è aumentato leggermente ed è vicino a 1.

La situazione non è uniforme: alcune regioni sono più in difficoltà di altre, probabilmente a causa delle nuove varianti del virus, più contagiose di quelle storiche, e l’Iss ha invitato alla cautela.

Anche in Francia la curva del contagio appare stabile, con un’incidenza di 192 casi ogni 100.000 abitanti, ma il ministro della Salute Olivier Véran ha spiegato che non è il momento di abbassare la guardia.

Da gennaio è in vigore un coprifuoco che inizia alle 18 e a quell’ora i negozi non essenziali devono chiudere, così come bar e ristoranti. Cinema, teatri e musei sono chiusi, la mascherina è obbligatoria in tutti i luoghi pubblici, è richiesto di lavorare da casa e di limitare gli incontri con i non conviventi, le scuole sono aperte.

Véran ha spiegato che la stabilità della curva è molto fragile per via delle varianti del virus, in particolare la B.1.1.7, responsabile di circa il 30 per cento dei nuovi contagi.

Per ora i politici hanno resistito alle pressioni degli scienziati che chiedono di chiudere di più, ma hanno potenziato le risorse per il tracciamento e la diagnosi6.

In Germania la situazione è leggermente diversa: la curva è in discesa e l’incidenza è più bassa, introno ai 57 casi ogni 100 000 abitanti. Nonostante questo, la cancelliera Angela Merkel ha deciso di prolungare le misure di contenimento fino al 7 marzo, dando solo la possibilità ai länder di riaprire le scuole, chiuse da prima di Natale, se lo ritengono opportuno.

In Germania le restrizioni sono più dure che in Francia: i negozi non essenziali sono sempre chiusi e bar e ristoranti sono aperti solo per l’asporto. Anche Merkel teme l’effetto delle varianti: la B.1.1.7 rappresenta tra il 15 per cento e il 20 per cento delle nuove infezioni8.

Serve un nuovo lockdown?

In Italia alcuni esperti hanno acceso il dibattito chiedendo di abbandonare il sistema di classificazione del rischio su base regionale e di imporre un nuovo lockdown nazionale, inteso come obbligo di stare a casa se non per motivi di necessità. Ma cosa abbiamo imparato in un anno di epidemia? Quali misure funzionano e quali no?

Purtroppo non è facile rispondere a questa domanda. Non che i ricercatori non ci abbiano provato. Sulla rivista Physics Report è stato pubblicato un articolo che fa il punto su oltre 350 lavori scientifici dedicati all’analisi delle diverse misure di contenimento e del loro impatto sull’epidemia.

Ci sono due risultati comuni. Il primo è che le mascherine sono estremamente efficaci, il secondo è che l’effetto delle restrizioni dipende molto dalla fase dell’epidemia in cui vengono introdotte. Più la loro adozione è precoce, più saranno utili per contenere il contagio.

Non è affatto facile ottenere questa conclusione a partire dai dati. Ogni paese ha infatti adottato simultaneamente diversi interventi e lo ha fatto con tempi differenti.

«Per riuscire a isolare l’effetto delle singole misure e costruire degli scenari alternativi, in cui una certa restrizione viene introdotta prima o dopo rispetto a quanto avvenuto nella realtà, abbiamo usato un sistema di machine learning chiamato Transformer», spiega Alessandro Londei, ricercatore del Sony Computational Science Laboratory di Parigi e tra gli autori di uno studio pubblicato a novembre su Nature Human Behaviour. Il lockdown nazionale è quello che perde più in efficacia se introdotto tardivamente.

Il sistema di intelligenza artificiale ha poi permesso di confrontare l’effetto delle singole misure e di concludere che il lockdown nazionale è poco più efficace di interventi meno drastici e che non limitano i movimenti delle persone, come l’introduzione di misure di sostegno al reddito o la realizzazione di campagne di informazione e comunicazione del rischio.

«I risultati variano molto da paese a paese: il contesto sociale, culturale ed economico hanno un ruolo fondamentale nel determinare il grado di adesione dei cittadini alle regole», commenta Londei e aggiunge: «Per capire l’origine di queste differenze stiamo collaborando con il progetto HOPE, How Democracies Cope with COVID19, dell’Università di Anacrusi».

Cosa pensano i cittadini

People wait after receiving the Pfizer/BioNTech vaccine against the COVID-19 in a vaccination center of Lyon, central France, Thursday, Fev. 18, 2021. French Health Minister Olivier Veran promised stepped-up testing and vaccinations, but the government has resisted calls from some local doctors and leaders for a new lockdown. (AP Photo/Laurent Cipriani)

Da un anno HOPE conduce sondaggi tra i cittadini di otto paesi sulle loro opinioni riguardo la gestione della pandemia. In Italia il sentimento della paura è più diffuso rispetto ad altri paesi europei, c’è meno fiducia nel governo e minor conoscenza delle dinamiche dell’epidemia.

Soprattutto: pochissimi sono ottimisti sul fatto che il paese riuscirà a uscire dalla crisi.

Il suggerimento sembra essere: piuttosto che minacciare l’ennesimo lockdown sarebbe più utile comunicare meglio e metterci nelle condizioni di rispettare le poche misure davvero efficaci.

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