Nell’intervento da segretario in pectore, Enrico Letta ha richiamato la lezione dei suoi maestri Nino Andreatta e Romano Prodi. Di conseguenza, ha rievocato il simbolo positivo rappresentato dall’Ulivo per quelle generazioni di elettori di centrosinistra che già votavano nel 1996. In dichiarazioni dei giorni precedenti, in netta discontinuità con Nicola Zingaretti, aveva anche riabilitato la legge elettorale Mattarella, figlia dei referendum Segni e culla dentro la quale l’Ulivo fu partorito.

Si è presentato come un epigono della sinistra Dc che sente al tempo stesso tutta la responsabilità di «chiamarsi Enrico», come Berlinguer. Quasi l’incarnazione della sintesi che molti militanti democratici, soprattutto tra i anziani, considerano l’essenza del Pd. Il Letta “profondamente cambiato” e spinto a “guardare ai giovani” dalla parentesi parigina ha proposto un ritorno a radici antiche.

Le evoluzioni del centrosinistra

Ma come sono cambiati nel frattempo la scena politica e gli orientamenti degli italiani espressi attraverso il voto? Per dare un’idea, ho riportato nel primo grafico la serie storica dei risultati delle elezioni parlamentari (nazionali ed europee) dal 2006 al 2019, per partiti e aree politiche.

Ho inoltre aggiunto le intenzioni di voto stimate all’inizio di questo mese (marzo 2021) in base alla media dei sondaggi calcolata da “Poll of the polls” (politico.eu).

Le elezioni del 2006 sono le ultime vinte dal centrosinistra, con Romano Prodi premier. L’Italia risultò allora perfettamente spaccata in due, tra due poli pieni di contraddizioni. Dal 2008 al 2013 è poi apparsa una zona grigia, frutto soprattutto dalle traiettorie di Gianfranco Fini, Pierferdinando Casini, Mario Monti e dei loro tentativi di creare un terzo polo, che già nel 2014 si è assottigliata.

Nel frattempo, sono cresciute le due componenti italiane dell’ondata populista, un po’ per effetto del malessere dovuto alla crisi economica globale, un po’ per effetto dell’incapacità dei partiti mainstream di rinnovarsi.

Non a caso nei due momenti in cui è parso che il PD ci stessero provando, ha recuperato consensi. Nel 2008 Veltroni riuscì a farlo crescere ben oltre la somma di DS e Margherita che erano in caduta libera, mentre il Renzi della prima ora, seppure con numeri assoluti più bassi, la portò oltre il 40% nel 2014. Si sa, due stagioni che per ragioni assai diverse si sono rivelate effimere.

Il nuovo bipolarismo

Sono cambiati i protagonisti, assieme alle aspettative sottostanti degli elettori. Ma è impressionante notare come, a distanza di 15 anni, dopo quelle montagne russe, l’Italia è di nuovo divisa quasi perfettamente in due. Peraltro, dalle europee ad oggi, l’equilibrio tra i due nuovi poli non è cambiato. Un indizio che mentre la mobilità degli elettori rimane elevata tra soggetti della stessa area, quella tra le due aree si è ridotta.

Al posto di Prodi, di “professori” oggi ce ne sono due, Giuseppe Conte ed Enrico Letta. Entrambi, come Prodi, di formazione cattolico-democratica, con venature egualitarie e liberali, ciascuno a suo modo estimatore del progetto Europeo (con Draghi sono tre). L’alternativa rispetto a Meloni e Salvini non potrebbe essere più netta, come era del resto quando al loro posto c’era Berlusconi.

Letta e Conte hanno anche compiti e obiettivi simili nel breve termine. Primo: confortare e consolidare la base dei rispettivi partiti, promuovendo una ristrutturazione degli assetti interni. Una operazione complicata, dopo gli strattoni degli ultimi anni, ma per la quale hanno un ampio mandato e, per ora, pochi veto player. Secondo: richiamare una parte di quel 9 per cento di elettori che li ha abbandonati per uno dei partiti minori di centrosinistra, riducendo così anche la litigiosità che producono.

Terzo: mantenere nei reciproci confronti una competizione non dirompente che allarghi il consenso complessivo, pescando soprattutto tra sfiduciati e incerti. Come è ovvio, ci sarà comunque, tra loro e tra i rispettivi partiti, un vincitore e un vinto.

Fuori dalle grandi città

Sanno senz’altro che hanno un problema nei piccoli centri e nelle periferie delle grandi città (il PD più dei 5 Stelle). Anche sommati, in quei contesti sono sistematicamente sopravanzati dal centrodestra. Lo si vede abbastanza bene dalla mappa con i differenziali tra i due “poli” calcolati sulla base dei risultati delle ultime europee.

Attenzione, questo genera un effetto visivo che può risultare fuorviante. Proprio perché la destra è elettoralmente più forte nelle aree meno popolate, il blu domina in una porzione del territorio più ampia. Non bisogna però farsi fuorviare neppure dal rosso dominante in provincia di Bolzano dove il differenziale è calcolato al netto dell’oltre 40 per cento della SVP. In varie aree del paese, la sommatoria giallo-rossa prevale o si rafforza solo nelle grandi città.

In tutto il Nord il blu sulla mappa si stempera o trascolora solo intorno a Milano, Torino, Genova, Trento. Ma il discorso vale anche al Sud, per Roma e Napoli. Nel breve termine, può essere una grande occasione per la ripartenza di dei due partiti e l’avvio dell’alleanza.

Il voto nelle grandi città sarà un importante banco di prova e la prossima vera sfida. A parte il caso di Milano, dove la disponibilità di Giuseppe Sala a ricandidarsi ha chiuso i giochi, nelle altre città si vedono all’opera tutte le più deleterie dinamiche che Conte e Letta dovrebbero curare.

Le reciproche diffidenze tra democratici e grillini sono acuite dalle guerre tra rivali dello stesso partito e dal corpo a corpo tra le due tifoserie continuato sui social quasi ininterrottamente anche dopo il cambio di strategia.

La pressione, i conflitti e lo sgomitamento dei politici locali hanno canoni simili alla lotta tra le correnti per accaparrarsi cariche al livello nazionale. Acuiscono i problemi dell’alleanza, scoraggiano la ricerca di candidature più autorevoli “simili-Sala”, riducono i margini per il ricambio. È lì, nelle grandi città che vanno al voto in ottobre, che si comincerà a vedere se le due cure sono efficaci e marciano divise puntando nella stessa direzione.

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