La grande transizione politica italiana è iniziata nel 2011 ed è finita nel 2023. Nel 2011 dopo due anni di sgretolamento del Popolo della libertà, di inchieste giudiziarie e di crisi finanziaria, la Seconda repubblica, fondata sull’alternanza precaria tra destra e sinistra, giunge al crepuscolo.

S’insedia un governo di soli tecnici, guidato da Mario Monti e fondato su una grande coalizione, con il compito di risolvere la crisi del debito sovrano e realizzare riforme, suggerite dalla Commissione europea e dalla Banca centrale europea, che entrambi gli schieramenti non sono capaci di fare per ragioni politiche e sociali.

Questo momento storico va però inserito in uno scenario ancor più ampio, globale ed europeo. La crisi di quegli anni può essere letta come il tramonto della fase più alta della globalizzazione economica, l’avvio del declino definitivo del paradigma politico e istituzionale neoliberale avviato su scala globale negli anni Ottanta, la prima importante incrinatura nella legittimazione delle istituzioni europee.

In Italia, al commissariamento del sistema politico per mano di tecnici con l’investitura europea corrisponde una reazione uguale e contraria, l’esplosione del populismo antipolitico e l’avvio di nuove trasformazioni dentro la destra e la sinistra.

Rivolta

La delusione dell’elettorato per la condizione economico-sociale, la sensazione di fallimento trasmessa dalla classe politica, il sentimento di impotenza della nazione si riversano contro il parlamento.

La crescita esponenziale del Movimento 5 stelle, che in una prima fase si è nutrito di antiberlusconismo e giustizialismo, risulta fatale alla sinistra più che alla destra.

Nonostante Berlusconi sia un leader in declino è il centrosinistra che in una situazione di vantaggio non riesce a vincere le elezioni proprio per il consenso sottratto dalla creatura di Beppe Grillo.

Nel 2013 inizia una fase completamente nuova. A destra trovano spazio nuove idee: euroscettiche, identitarie, anti immigrazione, con la lenta ma inesorabile crescita di nuovi leader come Matteo Salvini e Giorgia Meloni.

Il centrismo liberale di Berlusconi, pur se ancora resistente per la forza della leadership del Cavaliere, inizia a perdere la connessione con la maggior parte dell’elettorato di destra.

A sinistra pure si registra uno scollamento: mentre Enrico Letta governa con una larga coalizione, Matteo Renzi si prende il partito dopo una lunga crociata contro gli apparati del Pd iniziata nel 2012 nel nome del rinnovamento.

Renzi arriverà a palazzo Chigi con un programma di modernizzazione liberale e con un’idea di rinnovamento fondata sulla riforma costituzionale. Per errori personali e debolezze interne quella riforma fallirà, spalancando le porte all’ascesa definitiva delle nuove forze nazionaliste e populiste.

È in questa fase che però inizia uno sfasamento tra destra e sinistra. Nella prima la trasformazione nazional-populista è più rapida, Salvini e Meloni parlano a quella parte di società italiana insoddisfatta sul piano economico, critica verso le politiche europee, impaurita dalla crescente ondata migratoria.

Questa crescita delle forze radicali concorre alla rottura di Berlusconi del suo patto istituzionale con Renzi e sfocerà nelle politiche del 2018 col sorpasso della Lega su Forza Italia.

Una tale trasformazione va letta anche in ottica internazionale poiché in quegli anni si manifesta in tutto il mondo occidentale un protezionismo crescente, un rallentamento della globalizzazione, una maggiore diffidenza verso l’immigrazione, la contestazione delle istituzioni tecnocratiche e sovranazionali e poi, nel 2016, le sorpresa della Brexit e della vittoria di Donald Trump.

A sinistra, invece, questo cambiamento non prende piede. Il Pd resta un partito moderato, europeista, di sistema mentre gli elettori più delusi e arrabbiati ingrassano le fila del Movimento 5 stelle.

Nel 2018 l’offerta politica nazional-populista raggiunge il suo apice sia sul piano elettorale che parlamentare, con il governo Lega-Movimento 5 stelle. Due partiti euroscettici e anti establishment assumono la guida del paese, mentre i partiti moderati come Pd e Forza Italia appaiono sconfitti.

Restaurazione istituzionale

In questa legislatura rapsodica però avviene un altro cambiamento fondamentale. Prima la realtà economica, i rapporti di forza europei, la capacità politica del Quirinale e poi la pandemia, con le sue politiche sanitarie e con il Pnrr, modellano i partiti anti establishment, li riconducono nei binari istituzionali.

Il Movimento 5 stelle, partito vuoto sotto la patina antipolitica, si converte all’europeismo una volta giunto al governo. La Lega, dopo l’acme delle elezioni europee del 2019, inizia una parabola discendente che la porta fuori dal governo e la induce ad una successiva moderazione proprio nel rapporto con Bruxelles.

Fratelli d’Italia inizia la propria ascesa consapevole che i vincoli esterni, di politica internazionale e finanziaria, non potranno essere forzati più di tanto una volta al governo.

Il Pd resta il partito perno del sistema, ma prima è costretto ad accettare la leadership di Conte per tornare al governo e poi quella di Draghi in una coalizione di solidarietà nazionale con Lega e Forza Italia.

Ecco, dunque, che nel 2022, con un’altra trasformazione dovuta all’attuazione del Pnrr e all’invasione russa in Ucraina, il sistema politico italiano si reinventa. Meloni, che veleggia verso la leadership della destra, sceglie la via dell’opposizione morbida a Mario Draghi e del filoatlantismo in politica estera; Conte, invece, ripensa il Movimento come partito di sinistra fondato su politiche assistenziali, espansive e su un pacifismo scettico verso le posizioni della coalizione atlantica.

Il Pd di Enrico Letta, invece, resta uguale a se stesso e si schiaccia tutto sul sostegno al premier tecnico Mario Draghi. Le elezioni del 2022 registrano questa evoluzione: la coalizione della destra vince nettamente, ma con posizioni molto sfumate rispetto alla radicalità con cui Salvini e Meloni si erano affacciati anni prima alla politica; la sinistra perde perché divisa, con un Pd senza leadership e con un programma quasi inesistente, ripiegato sull’antifascismo.

Sul piano del consenso, il Pd è ridotto al minimo storico e incalzato dal Movimento 5 stelle, partito egemone nel sud per la sua proposta assistenzialista.

Mentre la destra ha avuto un ricambio di classe dirigente e una successiva “normalizzazione” per andare al governo e il Movimento 5 stelle ha trovato un nuovo ruolo a sinistra, i democratici sono rimasti troppo uguali a sé stessi ed esangui sul piano delle idee rispetto al nuovo scenario globale.

Nel frattempo la sommatoria delle politiche legate alla pandemia e alla guerra ha proiettato il mondo in un paradigma nuovo dove protezionismo, dirigismo, interventismo statale e un diffuso nazionalismo sembrano oramai farla da padrone.

L’arrivo di Schlein

Si giunge così al recente risultato a sorpresa delle primarie del Pd, dove si registra l’ennesima frattura tra militanti del partito, schierati per Bonaccini, e sostenitori esterni, che si riversano su Schlein.

La giovane candidata si rivela più intonata allo spirito del tempo: radicale, neo-statalista, ambientalista, progressista. Schlein viene considerata dai simpatizzanti del Pd l’ultima carta per rinnovare la sinistra in uno scenario internazionale ed economico completamente mutato e con un sistema politico italiano ristrutturato sì intorno alla polarizzazione tra destra e sinistra, ma anche gravato da vincoli esterni sempre più condizionanti tra guerra e ordine economico europeo.

Le difficoltà che la nuova segreteria dovrà affrontare sono rilevanti: riannodare i fili tra apparato del partito e società, competere con il Movimento 5 stelle per contenderne il consenso soprattutto nel meridione, scegliere una linea politica chiara sulla guerra in Ucraina e sul rapporto con l’Unione europea, uscire dall’angolo del progressismo metropolitano, confezionare una proposta economica credibile per i ceti produttivi.

Rafforzarsi nelle percentuali rispetto al partito di Conte non basterà pur se rappresenterà un primo passo necessario, poiché senza scalfire l’elettorato di centristi e destra risulterà impossibile per la sinistra competere con efficacia in elezioni che non siano le comunali a doppio turno.

Nei prossimi mesi capiremo se Schlein sarà capace di ampliare l’elettorato della sinistra, parlando a ogni italiano con un linguaggio comprensibile e senza tic moralistici, o se invece la sua ascesa rappresenterà una ulteriore chiusura a riccio nel recinto dei “migliori” dell’antifascismo, dei diritti civili, del cosmopolitismo.

Nel primo caso la sinistra avrà un progetto social-democratico per ambire a governare il paese, nel secondo ci sarà un partito più identitario, sì, ma anche più cristallino nel suo essere minoranza.

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