Fare politica è il più alto dei mestieri, ma non c’è scritto da nessuna parte – o quasi – che debba essere svolto in esclusiva. Il 1994 è stato l’anno in cui l’Italia ha scoperto il conflitto di interessi: con la discesa in campo di Silvio Berlusconi, patron di Mediaset e su cui gli avversari hanno addensato spesse nubi di sospetto sulle vere ragioni che lo hanno portato alla politica.

Nel corso degli anni, invece, l’attenzione sul tema è si è progressivamente abbassata, salvo emergere in alcuni casi eclatanti che hanno rispolverato l’annosa questione: cosa facevano i politici prima di essere eletti e continuano a farlo anche mentre siedono in parlamento o al governo?

Il settore è normato da una serie di scarne regole, che di recente hanno provocato più di qualche imbarazzo al governo Meloni. Il caso esploso di recente ha riguardato la presidente della commissione Giustizia al Senato, l’avvocata Giulia Bongiorno. Penalista tra le più note d’Italia e titolare di un importante studio legale a Roma, Bongiorno non si è sospesa dall’albo degli avvocati e dunque può continuare a patrocinare personalmente le cause che segue. La legge, infatti, prevede che i professionisti iscritti ad albi professionali siano tenuti a sospendersi nel caso in cui ricoprano ruoli di governo, come sottosegretari, viceministri o ministri, mentre nessun obbligo vige per i parlamentari. E’ stato per esempio il caso dell’attuale sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro Delle Vedove - anche lui avvocato e in più cause il difensore di fiducia della presidente del Consiglio Giorgia Meloni - che ha dovuto sospendersi dall’albo professionale con la nomina in un incarico di governo. Nessuna violazione, invece, da parte di Bongiorno.

Tuttavia, al netto della liceità, proprio questa promiscuità di funzioni ha sollevato un dibattito sull’opportunità di continuare a indossare la toga di avvocato e frequentare le aule di giustizia contemporaneamente a quelle di palazzo Madama. Per citare solo i tre casi più recenti, infatti, Bongiorno è difensore di parte civile nel processo a carico di Ciro Grillo e alcuni suoi amici per violenza sessuale di gruppo; ha difeso Consap, la concessionaria di servizi assicurativi pubblici spa, nel caso dei risarcimenti per le vittime del naufragio di Cutro, e la presidente del cda di Mondo Convenienza in un procedimento per sfruttamento del lavoro.

C’è poi il caso del patron della Lazio Claudio Lotito, senatore eletto in quota Forza Italia. In commissione Finanze ha depositato un emendamento alla delega fiscale, che prevede di rafforzare i regimi premiali per chi paga transizioni fiscali da oltre 15 anni. Una misura – poi stoppata dal governo - che, guarda caso, sarebbe stata molto funzionale alla situazione debitoria della sua squadra, acquistata nel 2004 spalmando su più anni i debiti. In febbraio, invece, ha fatto approvare un emendamento che prolunga di due anni l’assegnazione a Dazn e Sky dei diritti televisivi della Serie A.

Il più recente – risulta da una inchiesta di Report – è il caso del senatore Maurizio Gasparri, neo capogruppo di Forza Italia: dal 2021 è a capo di una società che si occupa di cybersicurezza, ma non lo ha mai dichiarato agli uffici di palazzo Madama come avrebbe dovuto fare prima di essere eletto per ragioni di trasparenza. Gasparri ha fatto sapere di non ravvisare nessuna violazione, ma ci sarebbe il rischio di una sua decadenza dal seggio.

Professionisti ed esperti

Paradossalmente la situazione degli iscritti ad albi, dei professori e dei dipendenti pubblici è la più chiara e sono altre le condizioni che sollevano e hanno sollevato dubbi di liceità. L’ultima ha riguardato il sottosegretario alla Cultura, Vittorio Sgarbi. Storico dell’arte, la polemica è scoppiata intorno alle consulenze che continua a svolgere anche mentre siede al ministero di via del Collegio romano.

La legge 215/2004 prevede che i titolari di incarichi politici debbano dedicarsi esclusivamente alla «cura degli interessi pubblici», vietando «attività professionali in materie connesse alla carica di governo», mentre Sgarbi ha incassato circa 300 mila euro di ingaggi per presenziare a mostre, come quella su Andy Warhol a Polesella ed eventi come Miss Italia.

Ancora non è stato chiarito se queste prestazioni fossero lecite, certamente hanno prodotto una imbarazzata presa di distanza da parte del ministro Gennaro Sangiuliano. Il sottosegretario ha sostenuto che lo siano, chiamando in causa lo stesso Sangiuliano, autore di libri pubblicati e in vendita ora che è al vertice del dicastero. La questione ancora aperta solleva interrogativi sulla porosità delle leggi in materia.

Le porte girevoli

Le stesse incertezze regnano anche nel settore dei ruoli tecnici che operano all’interno dei ministeri ma che con i ministri conservano un livello di legame fiduciario. La questione riguarda in particolare i magistrati che prendono servizio in strutture dell’esecutivo e la gestione della loro funzione pubblica.

In questi casi, la normativa è articolata. Nei casi dei magistrati ordinari, la riforma Cartabia ha introdotto regole molto stringenti: un tetto massimo di 200 magistrati che possano venir collocati fuori ruolo dal Csm per un massimo di 10 anni all’interno della vita professionale. Teoricamente i magistrati che lavorano in uffici sotto organico non potrebbero chiedere il fuori ruolo, ma il principio di «leale collaborazione tra poteri» ha reso la regola molto elastica. La riforma Cartabia del 2022 (una legge delega al governo per riformare l’ordinamento giudiziario, il cui impegno oggi grava sull’esecutivo Meloni) prevede due alternative per i magistrati che, dopo essere stati capi degli uffici legislativi o capi di gabinetto vogliano tornare alla toga: il collocamento per un anno fuori ruolo in un ruolo non apicale e poi, una volta ritornato alle funzioni giudiziarie, nessuna incarico direttivo o semi direttivo per tre anni; oppure il ricollocamento in ruolo e destinazione ad incarichi non direttamente giurisdizionali. Proprio questo ha sollevato molti malumori tra i magistrati ordinari, soprattutto visto che la regola vale solo per loro e non anche per i magistrati di Corte dei Conti e Consiglio di Stato, che in realtà sono i più richiesti all’interno dei ministeri. Per i magistrati amministrativi non vale nemmeno la regola dell’immissione fuori ruolo in caso di assunzione di incarichi tecnici dentro un ministero.

L’ultimo di questi casi in ordine di tempo riguarda la consigliera di Stato Giulia Ferrari, nominata vice capo di gabinetto al ministero della Salute. Pur trattandosi di un ruolo apicale e di fatto fiduciario per il ministro, la legge non prevede che il magistrato nominato debba obbligatoriamente essere messo fuori ruolo.  Cosi la magistrata amministrativa, che ha ricevuto il nulla osta del suo presidente di sezione ed è in linea con il deposito dei provvedimenti giurisdizionali, non ha chiesto il fuori ruolo. Dunque svolgerà l’incarico di vice capo di gabinetto con un impegno di quattro giorni a settimana, continuando anche a fare il magistrato.

Quali soluzioni?

La questione, tuttavia, non è di facile soluzione. Una legge che impedisca i conflitti di interessi è di difficile approvazione non solo perchè si scontra non solo contro gli interessi di categoria – sia essa magistratura, avvocatura o altri professionisti – ma anche con le logiche che la politica ha assunto negli ultimi anni. Se la politica nelle istituzioni non è un lavoro a tempo indeterminato, chi ricopre un incarico nelle istituzioni deve essere messo nelle condizioni di tornare al suo precedente impiego: per i dipendenti pubblici le carriere possono essere congelate, non è così invece per i liberi professionisti che, se dovessero sospendersi per i cinque anni in cui siedono in parlamento poi non avrebbero più uno studio a cui tornare. 

Anche pensare che i parlamentari che hanno attività lavorative in un settore poi non se ne occupino una volta entrati in Aula è problematico: se la competenza è un merito, non avrebbe senso escludere gli avvocati (la categoria più numerosa, con 72 esponenti alla Camera e 43 al Senato) dalla commissione Giustizia, i farmacisti o i medici dalla commissione Salute, i commercialisti dalla commissione Finanze e così via, per la paura che presentino emendamenti che siano frutto di interessi delle rispettive categorie di provenienza. Altrettanto ingenuo sarebbe pensare che la sospensione dall’albo non sia poco più di una foglia di fico: prendendo il caso di scuola di Giulia Bongiorno, titolare di uno studio legale con altri 12 professionisti, i suoi collaboratori possono sostituirla formalmente.

Se in molti casi l’unico vero principio sarebbe quello dell’opportunità di fare un passo indietro, le influenze sui singoli parlamentari vengono anche dalle associazioni di categoria. E’ l’esempio della trasformazione in legge delle proposte che Federfarma, la principale associazione di categoria, ha consegnato nelle mani del sottosegretario alla Salute Marcello Gemmato, meloniano, pure lui farmacista. L’Italia, infatti, continua ad essere tra i paesi senza alcuna regolamentazione in tema di lobbying: un testo, su cui FdI era contraria e la Lega molto scettica, era stato approvato alla Camera nella scorsa legislatura ma la caduta del governo Draghi ne ha bloccato tutto. Così, nella zona grigia, permane il liberi tutti.

Ha collaborato Daniele Cassaghi

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