Ieri è filtrata la notizia di un nuovo scontro nella maggioranza sul Mes. Un incontro a palazzo Chigi per fare il punto sui dossier economici in arrivo in parlamento (manovra, ristori e misure anti-Covid) è stato l’occasione per una scena che si replica da mesi, anche se la recitazione degli attori è sempre più stanca.

Il Pd e Italia viva sono favorevoli all’utilizzo della linea di credito pandemica del fondo Salva stati, i Cinque stelle hanno ripetuto il loro no. La questione diventa sempre più grave ma sempre meno seria. La parte della maggioranza che batte sul tasto Mes si guarda bene dal passare alla concretezza. Anche perché persino nel Pd ormai le sfumature sono sempre di più.

Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ieri veniva dato come favorevole, ma in altre circostanze è stato descritto come prudente. Una settimana fa il presidente dell’Europarlamento David Sassoli ha spiegato che «il Mes è uno strumento del passato», «dobbiamo farne uno strumento comunitario» e ricordato che «la Commissione europea già nel 2017 ne aveva proposto la riforma».

Comunque la si pensi, è un fatto che nessun paese abbia acceso quella linea di credito. I Cinque stelle hanno applaudito Sassoli e invece il segretario Nicola Zingaretti ha bollato l’uscita come «una sparata».

Ieri il suo vice Andrea Orlando ha di nuovo sbattuto i pugni sul tavolo, sempre metaforicamente: «Dobbiamo agire rapidamente per usare al meglio le risorse che ci siamo conquistati a livello europeo e dobbiamo fare in modo che queste risorse siano utilizzate per rafforzare la nostra sanità, la sua natura pubblica e la sua dimensione territoriale. Ecco perché il Pd continua a dire che il Mes è uno strumento che va preso in considerazione e che va assolutamente utilizzato».

Ma è il «rapidamente» a colpire. Un avverbio adatto alla scorsa primavera, appena il Mes è diventato disponibile.

I dossier impantanati

Il litigio sul Mes, che si trascina da mesi nel valzer dei penultimatum interni alla maggioranza, è un capitolo della palude in cui il governo in queste settimane annaspa, nella continua rincorsa di una svolta sempre promessa. In questo caso la decisione doveva arrivare dopo gli Stati generali di M5s. E invece è arrivata la consueta non decisione.

Secondo il Pd la lista dei dossier non risolti (e quindi forieri di guai al paese, e alla maggioranza) è lunga: dalla vicenda Ilva a quella Alitalia, da quella Autostrade (in capo a una ministra dem) ai cantieri sbloccati per decreto e invece per lo più rimasti fermi.

È lo stesso rosario che veniva sgranato mesi fa, prima della ripresa del contagio. A questo va aggiunto un elenco di riforme dal passo lentissimo, segno delle difficoltà interne alla maggioranza (che infatti cerca l’aiuto delle opposizioni “dialoganti”).

Come la legge Zan sull’omotransfobia appena approvata alla Camera e ora all’esame del Senato, dove c’è chi prevede un cammino difficile. Diversa, sulla carta, la conversione del decreto Sicurezza che ha sostituito i decreti Salvini. Il governo lo ha approvato dopo una lunga trattativa interna.

Ora è in commissione Affari costituzionali di Montecitorio, rallentato dall’ostruzionismo delle destre. Il suo arrivo in aula è previsto per fine mese. Ma è passato più di un anno da quando è stato inserito con squillare di trombe nel programma del nascente esecutivo giallorosso. E sul provvedimento al Senato sono previsti altri dissensi dei Cinque stelle, persino più insidiosi di quelli delle destre sulla legge Zan.

Il (troppo) vasto programma

Vanno aggiunte ancora almeno due riforme annunciate come indispensabili, e ferme al palo: quella del Csm e quella del conflitto di interessi.

Ma poi c’è tutto il capitolo di ambiziose riforme promesse a più riprese, con presentazioni solenni ma non altrettanto realistiche. La cui funzione evidente è quella di riempire di visioni strategiche una legislatura che fatica a portare a casa la gestione ordinaria, per non parlare di quella straordinaria della crisi sanitaria ed economica.

In questo capitolo vanno iscritti i dossier dei due tavoli di maggioranza partiti due settimane fa e finiti spiaggiati lunedì sera nello stesso arenile. Uno accanto all’altro.

Da una parte il tavolo della verifica di governo, che dovrebbe stendere un programma di fine legislatura, quello che Matteo Renzi chiama «contratto», definizione costituzionalmente sgrammaticata e che peraltro non ha portato fortuna al governo Conte versione gialloverde.

L’altro è quello presieduto dal ministro dei Rapporti con il parlamento Federico D’Inca sulle riforme. La legge elettorale innanzitutto. Ma altrettanto necessari sono i correttivi al taglio dei parlamentari, i regolamenti delle camere, la legge Fornaro per l’adeguamento dei collegi, poi – nelle intenzioni dei dem – la legge sul voto dei diciottenni al Senato e la riforma costituzionale per il superamento del bicameralismo perfetto.

Il tavolo si è bloccato, il Pd si appella a Conte: i Cinque stelle sono contro il «bicameralismo differenziato» – ma si guardano bene da non praticare il monocameralismo di fatto, come succede in questi mesi. Quanto alla legge elettorale, dopo aver votato in commissione per il proporzionale, Italia viva ha fatto saltare il banco riproponendo il maggioritario. La discussione si trascinerà fino alle soglie del voto.

Come non bastasse, i capigruppo dem spiegano che il tutto va «dentro un quadro di riflessione, sul cambiamento nei rapporti fra stato e regioni».

La pandemia ha messo in chiaro i conflitti fra enti locali e governo, l’algebra ricorda che con 15 regioni governate dal centrodestra il rischio di aprire un conflitto insostenibile è persino prima dell’angolo. «Ora si apre la stagione delle riforme», aveva annunciato Nicola Zingaretti all’indomani della vittoria del Sì al referendum sul taglio dei parlamentari. Ma nell’orologio del premier Conte quell’ora non è segnata.

© Riproduzione riservata