«Ho declinato». Dopo un’intera giornata di passione, Giuseppe Conte «declina»  la proposta di correre per l’alleanza giallorossa al Collegio 1 di Roma il prossimo 16 gennaio 2022. E il segretario Pd Enrico Letta, in serata, con amarezza rivendica di averci almeno provato: «La mia bussola, il mio dovere,  è costruire il centrosinistra e allargare il campo  al punto di proporre a un leader che è fuori dal parlamento di entrare grazie anche al radicamento del Pd nel collegio», spiega ai suoi.

Ma nel tardo pomeriggio il no di Conte rimbalza nel gelo al Nazareno, da dove era partito l’invito, e dove era arrivato un «sì». Nella speranza di aver trovato la soluzione geniale per uscire dall’empasse: i dem “romani” proponevano Enrico Gasbarra, gli sherpa del segretario Enrico Letta rilanciavano con il nome di Anna Maria Furlan, l’ex cislina con cui era convinto di poter convincere Carlo Calenda. Senonché Furlan non è in grandi rapporti con Marco Bentivogli, ex cislino e vicino a Calenda nella costruzione del centro. Insomma, un pasticcio, iniziato male, finito peggio, con Conte che persino paragona il «campo largo» – la definizione di Goffredo Bettin – a «un campo di battaglia».

C’è chi racconta che la notizia della candidatura, anticipata dal quotidiano Repubblica, abbia scatenato la reazione contraria dei Cinque stelle, anche quelli più vicini a Conte. E c’è chi, come il forzista Francesco Giro, è invece convinto che «appena saputo di Carlo Calenda come possibile sfidante si è dato a gambe». Il no finale ha lasciato i vertici del Pd spiazzati. Perché la sera di domenica il sì di Conte era un dato acquisito, dopo la richiesta formulata dal segretario Enrico Letta e dal ministro Dario Franceschini.I due avevano incassato la benedizione di Nicola Zingaretti, che nel tardo pomeriggio di domenica, alla fiera “Più libri più liberi” a Roma, ne aveva parlato pubblicamente («Penso sia un’opportunità da valutare: dobbiamo costruire un’alleanza che si prepara alle elezioni per vincere le elezioni. Chi vuole costruire un’alleanza pensa all’Italia e al suo benessere, chi la piccona pensa, illudendosi, solo a sé stesso e a “lucrare” punti di posizione per poi magari trattare sui collegi»).

Ma anche quella di Bettini, amico personale di Conte e grande sponsor dell’alleanza con l’ex premier. E di Roberto Gualtieri, il sindaco di Roma che per quel collegio da deputato – il suo – preferisce Enrico Gasbarra; ma che certo non può dire no a Conte, che lo ha sostenuto al secondo turno delle comunali e nel cui governo è stato ministro dell’Economica.

La notizia peraltro faceva dimenticare un weekend turbolento per il Campidoglio, dopo che Il Foglio aveva dato la notizia di una riunione sulle nomine, dal teatro dell’Opera all’Auditorium, finita male e durante la quale il sindaco avrebbe platealmente rotto con Bettini (non presente).

La mossa del Nazareno, fallita, ora rischia di rivoltarsi contro gli ideatori. Del resto è stata un po’ improvvisata. Nei mesi scorsi Conte per due volte aveva fatto smentire l’intenzione di correre alle suppletive (a Siena e a Primavalle) perché avrebbe preferito entrare in parlamento dalla via maestra delle prossime elezioni e non per acciuffare un ultimo scampolo di legislatura.

Per dire sì – sempre che non sia stato lo stesso Conte a chiedere di essere candidato, come pure sostengono alcuni deputati dem – avrebbe dovuto rimangiarsi la parola, sport in cui del resto il leader del M5s ha un certo know how. Ed esporsi, al proprio interno, all’accusa di entrare in parlamento con i voti del Pd e al servizio di Letta.

Ma poi ci sono state le reazioni nel resto dell’area del centrosinistra. Carlo Calenda ha annunciato la sua “discesa in campo” per stoppare Conte. Del resto in quel collegio il leader di Azione ha voce in capitolo. Il centrosinistra lo considera un seggio sicuro. Nel 2018 Paolo Gentiloni è stato eletto con il 42 per cento, nel 2020 alle suppletive Roberto Gualtieri ha preso il 62 per cento dello scarso 17 per cento dei votanti, circa trentamila persone. Ma al primo turno delle ultime comunalì lì Gualtieri e Calenda al primo turno sono arrivati appaiati intorno al 30 per cento. E Virginia Raggi – che per l’ex premier non muoverebbe un dito – è rimasta ferma al 10. Matteo Renzi ha lanciato i suoi avvisi («La candidatura riformista noi la troveremo in ogni caso», scrive nella sua newsletter) e le destre cominciavano a far balenare l’idea di una desistenza a favore di Calenda.

Un domino di reazioni che incredibilmente il Nazareno non aveva preso in considerazione. Letta e Franceschini avevano immaginato la mossa per rafforzare Conte in parlamento, dove la sua leadership fatica a consolidarsi, e così rafforzare anche l’alleanza del Pd con i Cinque stelle, in vista delle manovre per il Quirinale ma anche del voto anticipato, che sembra avvicinarsi insieme alla probabilità che Mario Draghi scelga di rendersi disponibile per il Colle. Nessuno nel Pd, anche i più dubbiosi, hanno fermato i vertici prima che la cosa diventasse di pubblico dominio. Il no di Conte è uno smacco per il segretario Letta, e per chi lo ha portato su quella strada. E certo non un buon viatico per il suo ruolo alla vigilia del voto per il Quirinale. La scelta del nome deve comunque arrivare entro una settimana. 

© Riproduzione riservata